giovedì 31 dicembre 2020

Probabili cadute

Non so se Renzi abbia intenzione realmente di fare cadere il governo, passando così alla storia come l'uomo che ha innescato una crisi politica nel bel mezzo di una pandemia e di una crisi economica con ben pochi precedenti storici. È possibile, conoscendolo. Chi segue un po' la politica e ciò che il tipo di Rignano ha combinato dal 2014 in qua, sa che potrebbe essere capace di farlo, e quel "io non ho niente da perdere", equivalente attuale del biblico "muoia Sansone con tutti i filistei", sta lì a dimostrarlo. 

Giova però tenere presente che siamo di fronte a un politico che, in quanto a populismo e incoerenze tra il dire e l'agire, se la gioca alla pari con Salvini, e forse gli dà anche dei punti. Renzi sa benissimo che in caso di mosse eccessivamente azzardate Conte andrebbe subito in parlamento per una verifica, e dato che un Conte-ter è escluso, il risultato sarebbe un ritorno alle urne, urne che condannerebbero Renzi e il suo partitino da zerovirgola alla completa irrilevanza politica. È un rischio che un uomo affetto da una patologica ipertrofia dell'io può sentirsi di correre? Così, a naso, direi di no, ma si tratta sempre di Renzi.

mercoledì 30 dicembre 2020

[...]

Vorrei vivere in un paese in cui l'arrivo di un vaccino non provochi una guerra civile.

martedì 29 dicembre 2020

Il mio 2020 in libri

Come faccio ogni anno in questo periodo, pubblico l'elenco dei libri che mi hanno tenuto compagnia in questo 2020 che sta per chiudersi. Chissà, magari con qualcuno dei miei 32 lettori ho avuto qualche lettura in comune. Quest'anno ho dedicato abbastanza spazio ai classici (Dumas, De Amicis, Twain, Dostoevskij, Flaubert, Goethe, Mann, Tolstoj, Manzoni), anche se la parte del leone la fanno sempre la narrativa più o meno contemporanea e la saggistica. 

A proposito di saggistica, menziono tre autori che hanno scritto saggi storici e scientifici che ho particolarmente apprezzato. Il primo è il professor Yual Noah Harari, che ho conosciuto tramite il libro Sapiens, da animali a dèi, un saggio che ho letto l'anno scorso e che ho poi riletto successivamente. Segnalo anche il genetista Guido Barbujani e il fisico delle particelle Guido Tonelli. Del primo ho letto il bellissimo Gli africani siamo noi, mentre del secondo l'altrettanto interessante Genesi, il grande racconto delle origini.

Per quanto riguarda la narrativa, due belle sorprese di quest'anno sono state La verità sul caso Harry Quebert, di Joel Dicker, e L'angelo di Monaco, di Fabiano Massimi. Una menzione a parte merita Questo bacio vada al mondo intero, di Colum McCann, che ho intenzione di rileggere a breve. A molti di questi libri, quelli che mi sono piaciuti di più, ho dedicato dei post

Una curiosità. Rileggendo l'elenco qui sotto mi accorgo che di alcuni libri mi sono rimaste vaghe memorie, mentre altri li ricordo benissimo. È normale che sia così, naturalmente, dal momento che la memoria è una grande selettrice di contenuti. E c'entra un po' anche l'età. Umberto Eco diceva che si ricordano e rimangono solo i libri letti fino a venticinque anni, poi tutto si dimentica. Credo sia vero.

1) Il barone rampante - I. Calvino

2) Tonio Kröger / La morte a Venezia / Cane e padrone - T. Mann

3) Fascismo. Formazione, evoluzione e caduta del Partito Nazionale Fascista - G. Bernati

4) Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull - T. Mann

5) E il Signore parlò a Mosè. Come la Bibbia divenne sacra - M. L. Satlow

6) La montagna incantata - T. Mann

7) La Bibbia non è un libro sacro - M. Biglino

8) La ragazza che guardava l'acqua - G. Faletti

9) La rabbia e l'orgoglio - O. Fallaci

10) Marinai perduti - Jean-Claude Izzo

11) Spugnole - G. Faletti

12) Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo - F. Filippi

13) Lo sciamano - N. Gordon

14) Galileo - A. Bossi

15) La grande guerra - G. Palitta

16) Il conte di Montecristo - A. Dumas

17) I luoghi di confino - A. Foa

18) Danubio - C. Magris

19) Lutero, la parola e la Riforma - F. Meloni

20) Cuore - E. De Amicis

21) Baudolino - U. Eco

22) Le rose di Atacama - L. Sepúlveda

23) L'abate nero - E. Wallace

24) Il vecchio che leggeva romanzi d'amore - L. Sepúlveda

25) Se non ora, quando? - P. Levi

26) Physique du role - G. Faletti

27) Le avventure di Huckleberry Finn - M. Twain

28) Il verde desiderio - A. Myrer

29) Michail Gorbacëv - A. Roccucci

30) Vivere stanca - Jean-Claude Izzo

31) L'educazione sentimentale - G. Flaubert

32) L'estate che conobbi il Che - L. Garlando

33) Pedagogia della crisi, crisi della pedagogia - M. Fabbri

34) Il dopo - I. Capua

35) Giordano Bruno, l'eretico impenitente e inquietante - S. Ansaldo

36) I promessi sposi - A. Manzoni

37) Non c'è più tempo - L. Mercalli

38) La giostra dei criceti - A. Manzini

39) La verità sul caso Harry Quebert - J. Dicker

40) Ultimo respiro - R. Brynza

41) 21 lezioni per il XXI secolo - Y. N. Harari

42) Bud, un gigante per papà - C. Pedersoli

43) Non lasciare la mia mano - M. Bussi

44) Le tre del mattino - G. Carofiglio

45) La papessa - D. W. Cross

46) After dark - M. Haruki

47) Suite francese - I. Némirovsky

48) La macchia umana - P. Roth

49) Ti amerò per sempre - P. Angela

50) Un mondo senza rifiuti? - A. Massarutto

51) Tutto ciò che resta - T. R. Richmond

52) Le affinità elettive - J. W. Goethe

53) Chi perde paga - S. King

54) L'ultimo dei Moicani - J. F. Cooper

55) Cattiva memoria - M. Flores

56) Cuore di tenebra - J. Conrad

57) La porta del diavolo - A. M. Mazzotta

58) Dittature mediterranee - G. Albanese

59) Questo bacio vada al mondo intero - C. McCann

60) L'angelo di Monaco - F. Massimi

61) Il cerchio - D. Eggers

62) I dolori del giovane Werther - J. W. Goethe

63) Il secolo sbagliato - G. Bocca

64) Gli africani siamo noi - G. Barbujani

65) Se una notte d'inverno un viaggiatore - I. Calvino

66) Se scorre il sangue - S. King

67) Di nessuna chiesa. La libertà del laico - G. Giorello

68) Perché non sono cristiano - B. Russell

69) Il commesso - B. Malamud

70) La donna spezzata - S. de Beauvoir

71) Il corpo - U. Galimberti

72) Eva Luna - I. Allende 

73) Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde - R. L. Stevenson

74) Amata scrittura - D. Maraini

75) Anna Karenina - L. Tolstoj

76) Genesi, il grande racconto delle origini - G. Tonelli

77) Bomba atomica - R. Mercadini

78) A cosa serve la politica? - P. Angela

79) Gli ultimi giorni di quiete - A. Manzini

80) Che cosa sa Minosse - F. Guccini e L. Macchiavelli

81) The sun dog - S. King

domenica 27 dicembre 2020

Vaccino anti-covid? Si, grazie

La diffusa titubanza nei confronti del vaccino anti-covid, le cui prime dosi sono arrivate ieri in Italia, non deve stupire. È infatti figlia della dilagante cultura anti-scientifica, accompagnata alla mancanza di cultura tout court, in cui affonda il nostro paese, e non solo il nostro, purtroppo. Anzi, a me suscita quasi meraviglia che, sondaggi alla mano, i favorevoli all'assunzione del nuovo vaccino siano ancora la maggioranza degli interpellati e non una minoranza. 

Non so quando toccherà a me, ma so con certezza che quando me ne sarà data l'opportunità lo farò, e lo farò convintamente. Perché? Perché studiosi, medici e scienziati dicono che non esistono motivi per non farlo, e siccome il mondo è andato avanti ed è progredito grazie a chi ha studiato e non grazie a gente come la signora Brigliadori o Red Ronnie o Enrico Montesano o Heater Parisi, ecco perché lo farò convintamente. 

Avrò qualche timore? Può darsi, non fosse per il fatto che si tratta di una cosa nuova ed è noto che ogni novità è sempre accompagnata da più o meno forti diffidenze. Quando arrivò l'energia elettrica a soppiantare l'illuminazione prodotta dalle lampade a olio, si formarono comitati di protesta contro la presunta dannosità e pericolosità dei cavi che la veicolavano, giusto per fare un esempio. Oggi la corrente elettrica è in tutte le case e non ci sogneremmo mai di farne a meno.

Magari, chissà, arriverà un giorno in cui si potrà fare a meno di gente come i tizi menzionati sopra, nel frattempo io farò convintamente ogni vaccino che gli scienziati mi dicono che è bene fare.

Inferiore al desiderio

Nel racconto Il borghese stregato, di Dino Buzzati, Giuseppe Gaspari, commerciante in cereali di 44 anni, raggiunge moglie e figli nel paese di montagna in cui stanno trascorrendo le vacanze. Un giorno, durante una passeggiata solitaria, Giuseppe Gaspari si rende conto che quei luoghi l'hanno un po' deluso, non sono come si aspettava.

"Incamminatosi per una ripida mulattiera che saliva alla montagna, si guardava intorno a osservare il paesaggio. Ma, nonostante il sole, provava un senso di delusione. Aveva sperato che il posto fosse in una romantica valle con boschi di pini e larici, recinta da grandi pareti. Era invece una valle di prealpi, chiusa da cime tozze, a panettone, che parevano desolate e torve. Un posto da cacciatori, pensò il Gaspari, rimpiangendo di non essere potuto mai vivere, neppure per pochi giorni, in una di quelle valli, immagini di felicità umana, sovrastate da fantastiche rupi, dove candidi alberghi a forma di castello stanno alla soglia di foreste antiche, cariche di leggende. E con amarezza considerava come tutta la sua vita fosse stata così: niente in fondo gli era mancato ma ogni cosa sempre inferiore al desiderio, una via di mezzo che spegneva il bisogno ma mai gli aveva dato piena gioia."

Leggendo queste righe mi è venuto da pensare a quante volte capita anche a noi di lamentarci di quella "via di mezzo" che è la vita (l'ho fatto spesso anch'io). Magari stiamo bene, abbiamo un lavoro, la salute, un vivere quotidiano senza eccessive ansie o preoccupazioni. Eppure... manca sempre quel qualcosa, da qualche parte c'è un giardino che è sempre un po' più verde del nostro.

Tempo fa, mentre ero fuori a mangiare una pizza con alcuni colleghi (quando ancora si poteva), ricordo che si commentava la notizia di un tale che aveva realizzato una grossa vincita alla lotteria. "Beato lui che ha risolto tutti i suoi problemi!" ha commentato uno del gruppo, riscuotendo l'approvazione degli altri. Istintivamente anch'io ho pensato la stessa cosa. Poi ci ho riflettuto un po'. Ho raggiunto il mezzo secolo di vita, la salute bene o male c'è, ho un lavoro noioso e a volte pesante ma sicuro, ho una famiglia che fortunatamente gode di buona salute, insomma in generale le cose non mi vanno male. Però da qualche parte c'è sempre un giardino un po' più verde.

Il problema è che si tende sempre a guardare i giardini più verdi, molto difficilmente quelli più brulli, spelacchiati o spogli. In generale è molto difficile alzare lo sguardo e abbracciare con la vista un paesaggio e un panorama che esulino un po' dal piccolo ombelico in cui gravita la nostra vita. Se lo facessimo, magari ci accorgeremmo che quelli che noi consideriamo problemi (un lavoro noioso, qualche acciacco, i soldi che a volte sembra non bastino mai ecc.), per oceani di altre persone, là fuori, sarebbero fortune immense.

In realtà questo atteggiamento ha una sua ragion d'essere. Ho letto una volta in un libro di Vittorino Andreoli che la nostra mente tende a relazionarsi in misura maggiore con ciò che la circonda. Questo spiega perché se muore un nostro caro congiunto ci disperiamo, se muore un vicino di casa ci dispiace, se ogni minuto muoiono nel mondo dieci bambini di fame, pazienza. 

Da qualche tempo, compatibilmente con le mie capacità, ho cominciato ad evitare di lamentarmi dei "problemi" in cui m'imbatto, che non significa una rassegnata e passiva accettazione, ma l'approccio ad essi con la consapevolezza che, rispetto ai problemi veri che hanno moltitudini di persone, li posso considerare tranquillamente delle inezie. Poi magari non sono ancora bravo a mettere in pratica questo atteggiamento, ma ci provo, e può capitare che anche Buzzati mi dia una mano.

sabato 26 dicembre 2020

Salvini e i clochard

A me non indigna tanto l'iniziativa di Salvini, che con alcuni giorni di anticipo annuncia che a Natale andrà a consegnare pacchi dono ai senzatetto a favore di telecamere e social. Ormai lo conosciamo, è fatto così, ogni lato dell'agire umano viene sacrificato sull'altare della propaganda.
A me stupisce e soprattutto preoccupa che questo agire piaccia a un sacco di gente.

venerdì 25 dicembre 2020

Gli ultimi giorni di quiete

Mi capita raramente, anzi quasi mai, di leggere un libro in una giornata. Mi è successo oggi con Gli ultimi giorni di quiete, di Antonio Manzini, iniziato stamattina e terminato ora. Ho letto altri libri suoi, in passato, tutti piacevoli e interessanti, ma questo mi ha stregato fin dalle prime pagine, probabilmente anche a causa della delicatezza con cui traduce in romanzo la tragedia di un padre e una madre a cui viene ucciso l'unico figlio. È un libro sull'ingiustizia e sulla linea sottile che a volte separa il sacrosanto desiderio di giustizia dal feroce desiderio di vendetta. Un libro che, nella sua tragicità, offre parecchi spunti per pensare e riflettere.

A cosa serve la politica?

Si tratta di uno di quei libri che forse sarebbe meglio non leggere, perché si chiude l'ultima pagina con la quasi certezza che questo paese non risalirà più dall'abisso in cui è precipitato. Le cause della caduta in questo abisso sono più o meno note, almeno a chi abbia una qualche conoscenza delle vicende storico-politico-sociali che hanno caratterizzato l'Italia degli ultimi otto lustri, ma vedersele inanellare in una sequenza così lucida e spietata, offre pochi margini di speranza.

Piero Angela, con la linearità e la chiarezza che gli sono consuete, inizia questo saggio con una considerazione molto interessante che, in generale, mi pare venga pensata sempre molto poco, e cioè che non è la politica a determinare il grado di benessere di un paese. Quante volte, se ci pensate, tendiamo a dare ogni responsabilità della marea di cose che non vanno alla politica e ai politici? Non è così, o almeno non è solo così, anche se la politica ha le sue innegabili responsabilità. Per chiarire questo concetto, Angela fa un esempio. Scrive: 

"Prendiamo due paesi molto distanti dal punto di vista economico: Svezia e Romania. Gli svedesi hanno un reddito pro capite di 47.500 euro. I romeni di soli 9.600 euro. Un vero abisso. Immaginiamo che un politico romeno si presenti alle elezioni e dica: 'Cari concittadini, se mi eleggerete vi farò avere salari svedesi e anche pensioni, assistenza, asili nido, ospedali, di tipo svedese...' Potrebbe mantenere le sue promesse? Ovviamente no. Perché no? Rispondere a questa domanda significa capire come funziona la "macchina della ricchezza". E anche la "macchina della povertà". [...] È infatti radicata l'idea che sia la politica a determinare il benessere di un paese. E che, cambiando maggioranza, si possano ottenere cose che in realtà non dipendono dalla politica. E che non dipendono neppure dalla capacità di lottare per ottenerle. Infatti, anche se i cittadini romeni riempissero le piazze di cortei, e scioperassero a oltranza, non riuscirebbero comunque ad avere salari svedesi, e neppure pensioni, assistenza, asili nido, ospedali di tipo svedese. Perché? Perché esistono dei meccanismi che portano una società a essere sviluppata o arretrata indipendentemente dalla "politica" come è intesa comunemente. Il politico è infatti il pilota, ma senza macchina non può andare da nessuna parte. Soprattutto se, come spesso avviene, in politica si dibatte continuamente sui ricambi di maggioranza ma non su come migliorare le prestazioni del paese."

Il concetto mi sembra chiaro. Qui entra in gioco la responsabilità della "macchina" cui accenna Angela, macchina che è la società, cioè noi, che va a sommarsi alle responsabilità della politica. La critica più grossa che si può rivolgere alla politica, infatti, è di non essere mai stata lungimirante, non avere investito, escluse poche e lodevoli eccezioni, in programmi e visioni a lungo termine, che scavalcassero la mera contingenza e la ricerca del consenso immediato per ragionare in termini di generazioni piuttosto che delle successive elezioni. E questo, più o meno, è già da tempo noto a tutti.

La seconda critica feroce che si può attribuire alla politica, critica figlia del concetto appena accennato, è il non investire in quei fattori che possono produrre ricchezza. È infatti cosa nobile adoperarsi per ridistribuire ricchezza cercando così di smussare le disuguaglianze, ma questa ricchezza non è inesauribile e se non ci si adopera per produrla, si arriva a un punto in cui non c'è più nulla da poter ridistribuire. Come si produce ricchezza? Investendo in cultura, educazione, scuola, ricerca, scienza, tutti ambiti in cui, guarda caso, si sono sempre tagliate risorse, tagli fatti da governi di qualsiasi colore politico. Se si opera in questo modo e si pretende di produrre ricchezza aumentando il debito, tagliando in maniera lineare e aumentando il livello di tassazione, la via del baratro è assicurata.

Grandi paesi come Giappone, Cina, India, hanno capito da molti anni questa filosofia e la mettono in pratica, incentivando la meritocrazia, investendo in ricerca, scuola, scienza, e i risultati oggi si vedono, certificati da aumenti di benessere, PIL, peso sempre maggiore nelle dinamiche geopolitiche mondiali. Alle mancanze della politica nostrana si aggiunge poi la nota indole di gran parte delle italiche genti, da sempre adagiate in una sorta di connivenza interessata nei confronti dei "mali" che affliggono la politica (corruzione, piccoli interessi particolari invece che generali ecc.). In pratica sì, ci si lamenta dell'inefficienza e del malaffare che pervade la politica ma poi, spesso, nel proprio piccolo, si tende ad assumere atteggiamenti che poco hanno di diverso da ciò per cui poi ci si lamenta.

In definitiva, a cosa serve oggi la politica? A nulla, dal momento, oltretutto, che a decidere oggi è solo l'economia e il mercato. Ai politici è rimasto giusto il ruolo di presentarsi in tv in veste di aggregatori di passioni (destra e sinistra), poco altro. Un grosso in bocca al lupo a noi, ne avremo enorme bisogno nel prossimo futuro.

giovedì 24 dicembre 2020

Buone feste

Ho finito di lavorare anche oggi, finalmente. Tornando a casa mi sono imbattuto in una Santarcangelo stranamente affollata; ma non è zona rossa, da oggi? Boh, forse ho capito male io, o forse la gente gira perché sono talmente tante le deroghe e, volendo, le scappatoie più o meno lecite alle restrizioni che le persone escono lo stesso. Adesso mi aspettano tre giorni di riposo e di relax che più o meno ho già idea di come impiegherò: prevalentemente leggendo e, meteo permettendo, andando a camminare. 

Che sarà un Natale diverso dagli altri è quasi banale ribadirlo. Solitamente, come tradizione, andavo con la mia famiglia a pranzo dai miei; a volte si aggiungeva qualche parente più o meno conosciuto che arrivava da non so dove, di quei parenti che escono fuori magicamente per Natale e poi tornano nell'anonimato da cui sono usciti. Quest'anno, ognuno a casa sua, e forse, alla fin fine, non è neppure tutto 'sto male.

Buone feste a chi passerà di qui.

martedì 22 dicembre 2020

Piero

C'è un signore che oggi compie 92 anni: Piero Angela. Ogni anno lo ricordo qui, su queste pagine, perché è stato uno dei miei miti di quand'ero giovane e lo è ancora oggi che giovane non sono più. A lui (o meglio, anche a lui), alle sue trasmissioni, ai tanti suoi libri che affollano la mia libreria devo il mio amore per la curiosità, per la razionalità, per il non accontentarmi mai della prima risposta. 
Buon compleanno, mito!

domenica 20 dicembre 2020

Sul trattare i seguaci come stupidi

Sto leggendo un libro gustosissimo: Bomba atomica, di Roberto Mercadini, al quale dedicherò un post non appena l'avrò terminato. Mi sono imbattuto però in una parte che merita di essere menzionata a parte perché tratta tematiche estremamente attuali. Si parla del Mein Kampf, il libro scritto da Hitler che rappresenta un po' il manifesto della sua politica. In particolare, il passaggio relativo alla propaganda e al modo in cui un leader politico deve considerare i suoi seguaci. Non aggiungo nulla, mi limito a citare pari pari il brano in questione, dopodiché chiunque può liberamente elaborare analogie con l'attuale modo di fare politica e con alcuni (uno in particolare) politici di oggi. A me queste analogie sono venute spontanee. Ecco il brano in questione (il neretto è mio):

In generale colpiscono i brani in cui il libro [Mein Kampf, nda] parla della propaganda politica, perché hanno il sapore di una autodenuncia. Vengono raccomandati metodi a cui molti politici odierni sembrano attenersi scrupolosamente: per esempio, Hitler dice che, se si vuole vendere un sapone, non ci si può permettere di affermare che anche le saponette della concorrenza sono buone. Occorre dire che sono pessime, che impediscono una vera igiene, e che, anzi, insozzano la pelle. Così, nell'avversario politico non può, in nessun caso, essere riconosciuto alcun pregio, alcun merito, alcuna ragione. Lo scontro tra due parti politiche deve essere percepito dai cittadini come la battaglia tra il bene e il male, senza la minima possibilità di dialogo. Occorre suscitare gli umori della più forsennata tifoseria sportiva. Ogni colpa deve essere attribuita agli altri. A costo di dire il falso, di distorcere la realtà in modo imperdonabile. Lo scrive chiaramente: "La cosa più adatta sarebbe stata spostare incessantemente tutto il peso sulle spalle del nemico, anche se questo non corrispondeva al reale corso degli eventi, come se fosse così nonostante la realtà."

Che Hitler abbia la faccia tosta di confessare pubblicamente queste scorrettezze, mettendole addirittura nero su bianco nel suo libro, per me è semplicemente incredibile. Così come è incredibile riguardo ai propri seguaci: occorre trattarli come stupidi.
Scrive così: "La capacità recettiva delle masse è molto limitata e la loro comprensione è scarsa; d'altra parte, essi hanno una grande capacità di dimenticare. Premesso questo, tutta la propaganda efficace deve essere limitata a pochissimi punti che devono essere esposti sotto forma di slogan finché anche l'ultimo uomo sia in grado di comprendere ciò che ogni slogan significa."
Ci ritroviamo dispersi in una vasta oscurità di farneticazioni e di bassezze miserabili. Infine, a forza di vagare, in un'unica, solitaria, oasi di senso. È il punto in cui Hitler parla del parlare. Voglio dire del parlare in pubblico. Hitler ha tenuto discorsi davanti a folle di migliaia di persone, è stato in grado di piegare la mente di un popolo intero e di condurlo alla follia con la sua eloquenza. Quando si pronuncia sull'arte oratoria, occorre forse respingere il ribrezzo e mettersi in ascolto: "L'oratore riceve dal pubblico stesso a cui parla una costante correzione della sua conferenza. In quanto dal volto degli uditori si può sapere se e quanti di essi possano seguire quello che lui dice comprendendolo e se le sue parole facciano l'impressione che lui desidera."

Intendiamoci: nulla di nuovo. Qualsiasi attore e qualsiasi narratore sa che le cose stanno così. L'oratore "ascolta" sempre chi lo ascolta. Non può sapere cosa passa per la testa di coloro che ha davanti, se lo comprendono o se li sta convincendo; deve intuirlo dai loro sguardi, dai loro volti, dai brusii, dai silenzi, facendo la massima attenzione a tutto questo. Poiché, come scriveva Wittgenstein, "un processo interno ha bisogno di progetti esterni." Perciò ogni monologo è, in realtà, un dialogo con il pubblico. Un assolo sulla scena si fa sempre "insieme" a tutti coloro che sono in platea. Ma queste parole fanno impressione se è Hitler a scriverle. Persino lui ammette che l'oratore deve farsi "correggere" da chi ascolta. Dunque, Hitler si faceva correggere! Dalle stesse persone, tra l'altro, che descriveva come limitate e incapaci di comprensione. 
Queste parole sono un paradossale ma invulnerabile monumento al dialogo. Sanciscono in modo definitivo il primato della relazione. Non è davvero possibile raggiungere, nel bene e nel male, nessun tipo di obiettivo senza passare dalla strettoia di questa forma di umiltà e di attenzione all'altro. Resta una leggera inquietudine nel rendersi conto di essere circondati, spesso, in questo senso, da persone meno disposte al dialogo di Adolf Hitler.

La lavatrice

Questa settimana mia moglie è andata a comprare la lavatrice nuova. C'è andata assieme a suo babbo, che per tutta la vita ha riparato lavatrici per mestiere e quindi ci capisce. Alla fine, hanno acquistato il prodotto che, secondo mio suocero, offriva il miglior compromesso prezzo-qualità, una Indesit, marca abbastanza rinomata. Mentre chiacchieravo un po' col tecnico che è venuto a casa a installarla e a ritirare la vecchia, gli ho fatto presente che quella che aveva tirato le cuoia, una gloriosa Rex che ci fu regalata nel 1996, aveva fatto il suo dovere per 24 lunghi anni. Il tecnico ha sorriso, aggiungendo di non pensare neanche lontamente che una lavatrice di adesso possa durare così tanto. Molto ottimisticamente ha pronosticato una vita massima di una decina d'anni, ma molto ottimisticamente. Gli ho risposto che lo sapevo già e mi è venuto in mente che ne avevo scritto qui. Siamo ormai perfettamente inseriti, più o meno coscientemente, nell'epoca in cui la fine delle cose è il fine per cui vengono costruite, altrimenti crolla tutto.

sabato 19 dicembre 2020

Genesi (quella vera)

Di Guido Tonelli avevo già accennato qui. L'anno scorso ha pubblicato un saggio, quello che vedete nell'immagine sopra, in cui racconta, alla luce delle ultimissime scoperte scientifiche, come e perché è nato l'universo. Bene, questo saggio l'ho divorato in due giorni. Avevo già avuto modo di conoscere l'efficacia retorica e affabulatrice dello scienziato dalle tante sue conferenze che si trovano su YouTube, ora ho potuto saggiare anche le sue notevoli potenzialità letterarie.

Perché è intrigante, questo libro? In primo luogo perché è scritto in uno stile comprensibile anche a chi, come lo scrivente, ha poche o nulle nozioni di fisica; in secondo luogo perché - e qui parlo a titolo personale - sapere quando, come e perché è nato quella specie di "sacco" (Tonelli mi perdoni) senza confini che abitiamo è una delle storie più affascinanti che ci siano. E se per conoscere questa affascinante storia occorre imbattersi in qualche indispensabile tecnicismo scientifico, che comunque Tonelli ha ridotto al minimo indispensabile, beh, il gioco vale sicuramente la candela.

Naturalmente non posso qui riassumere le oltre duecento pagine del volume, mi limito brevemente ad accennare alcuni dei concetti che mi hanno colpito di più. Il primo è la data di nascita. Il nostro universo (l'utilizzo di questo pronome non è casuale, dal momento che è possibilissimo che là fuori ce ne siano altri) ha 13,8 miliardi di anni ed è nato dal vuoto, o meglio da una "fluttuazione" dello stato di vuoto. A questo proposito, Tonelli distingue tra vuoto e nulla, che noi spesso tendiamo a considerare sinonimi. Non è così: il nulla è un concetto filosofico, un'astrazione, il vuoto è un concetto fisico. Confesso di non aver neppure io mai pensato a questa distinzione.

In sostanza, il vuoto è ciò che c'era prima del Big Bang, anche se in questo contesto il concetto di "prima" non ha senso, dal momento che lo spazio e il tempo entrano in scena assieme alla massa-energia. Si tratta di un paradosso che si accetta per comodità divulgativa, e già qui ci si imbatte nell'intrinseco fascino nascosto nella domanda: cosa c'era prima che nascesse il tempo? In realtà, come scrive Tonelli, il vuoto "è un sistema fisico molto peculiare che, nonostante il nome francamente fuorviante, è tutt'altro che vuoto. Le leggi della fisica lo riempiono di particelle virtuali che appaiono e scompaiono a ritmi forsennati, lo affollano di campi di energia i cui valori attorno allo zero fluttuano continuamente. Chiunque può prendere a prestito energia dalla grande banca del vuoto e vivere un'esistenza tanto più effimera quanto maggiore è il debito che ha contratto."

Come dicevo, non posso qui riassumere tutto il libro, vi bastino i pochi cenni qui sopra. Se tutta la storia vi intriga come intriga me, consiglio l'acquisto del volume o, alternativa più comoda, il suo riassunto direttamente dalla sua voce.

Evoluzioni (?) aziendali

Ieri sera tardi, mentre tornavo a casa dal lavoro, riflettevo sulle modalità in cui ne sono cambiate le dinamiche negli ultimi trent'anni. Prendo questo lasso di tempo come riferimento perché è appunto da trent'anni che lavoro sempre nella stessa azienda. Lavorare per così lungo tempo nello stesso posto consente di vedere in modo migliore il modificarsi delle condizioni e delle dinamiche del lavoro negli anni.

Quando iniziai, l'azienda era piccola, un paio di soci titolari e i dipendenti. Ci si conosceva tutti e i rapporti erano generalmente di stampo amichevole e familiare, non certo di natura gerarchica. Gli orari erano tutto sommato abbastanza flessibili e lo svolgimento delle mansioni era caratterizzato da una certa libertà. Col passare degli anni l'azienda, per riuscire a competere col modificarsi del mercato del lavoro, si è fusa con altre simili, inglobando altre realtà, cosa che naturalmente ha richiesto un certo numero di sacrifici in termini di posti di lavoro. 

Oggi quella piccola azienda in cui iniziai è un piccolo ingranaggio di un "macchinario" molto più grande e articolato. Non c'è più la familiarità di una volta e le molteplici manovre di fusioni, acquisizioni, cessioni protrattesi nel corso degli anni hanno fatto sì che oggi io non sappia neppure che faccia abbiano i proprietari. So solo, genericamente, che mi trovo alle dipendenze di una grossa S.p.A con sede in Abruzzo. 

Ciò ha comportato, giocoforza, la scomparsa della prima condizione che rendeva in un certo qual modo gradevole il lavoro: la familiarità a cui accennavo sopra, sostituita da una componente burocratica e gerarchica che ha trasformato noi lavoratori da persone a numeri. Quella libertà di manovra, diciamo così, che si respirava agli inizi e che permetteva a chi lavorava di godere di una certa quota di autonomia nello svolgimento del lavoro è sparita sotto il peso di orari precisi, turni, tempi contingentati e rigidi per pause pranzo e cena, asettici e freddi moduli per ogni tipo di richiesta, tipo permessi e ferie (una volta bastava avvisare il giorno stesso se ad esempio si aveva necessità di allontanarsi per un'ora).

Insomma, il lavoro - almeno il mio, magari non è dappertutto così - se una volta era organizzato sotto rapporti di relative familiarità e autonomia, ora è organizzato esclusivamente sotto rapporti di gerarchia, efficienza e produttività. Senza girarci tanto attorno, si è passati da un lavoratore considerato persona a un lavoratore considerato numero. Certo, so benissimo che le aziende non sono enti di beneficenza e che il faro che illumina il loro operare, oggi come allora, è quello del profitto, ma col tempo si è gradatamente persa, fino a esaurisi, quella componente umana nel rapporto lavoratore-azienda che tutto sommato rendeva sopportabile, spesso anche gradevole, lavorare con questa consapevolezza.

Essere considerati numeri, godere di considerazione limitatamente al livello di efficienza che si è in grado di raggiungere, avere coscienza che si può essere lasciati a casa senza troppe difficoltà o spiegazioni, non è esattamente il migliore degli incentivi per continuare a lavorare con impegno. Abbiamo perso l'umanità nei rapporti di lavoro, oltre che in quasi tutti gli altri ambiti sociali, e una società senza umanità è destinata, come del resto è ormai sotto gli occhi di tutti, al declino.

giovedì 17 dicembre 2020

San Gennaro

Non posso non notare come la mancata liquefazione del sangue di San Gennaro compaia in prima pagina su molte testate nazionali ma non su Avvenire, fatto che testimonia come dalle parti di Oltretevere (Avvenire è l'organo ufficiale della CEI) si tenda a mantenere la giusta distanza tra fede e superstizione. Poi, che questa distinzione sia ignorata tranquillamente da buona parte del popolo cattolico, poco importa, ciò che conta è il risultato finale. 

È interessante notare, a tal proposito, come la notizia tenda a comparire con maggior rilievo sulle prime pagine dei quotidiani più popolari e con meno pretese intellettuali. Tra questi non poteva certo mancare Il resto del Carlino, il quotidiano più diffuso qua in Emilia Romagna e tradizionalmente rivolto a un target di lettori poco inclini all'approfondimento critico. Qui, il mancato miracolo occupa gran parte della prima pagina, a conferma della "indole" del giornale.

Per quanto riguarda il fenomeno in sé, non credo ci sia molto da dire. Si tratta di una delle tante superstizioni popolari a cui la gente tende ad affezionarsi e va bene così. Una volta guardavo con un misto di compassione e derisione chi credeva a queste cose, poi, col tempo, ho maturato un atteggiamento più condiscendente. In fondo, come ebbe a dire una volta il buon Galimberti, già la vita a volte è insopportabile: se si riesce a trovare qualche forma di consolazione in queste cose, perché no?

martedì 15 dicembre 2020

"Se qualcuno morirà, pazienza"

Andando un po' (molto) contro corrente, io ho apprezzato ciò che ha detto il presidente di Confindustria Macerata Guzzini, e cioè che bisogna riaprire tutto e se ci saranno morti, pazienza. Non mi riferisco, naturalmente, al concetto in sé, che rigetto in toto, mi riferisco al fatto che Guzzini ha detto pubblicamente, fuori da ogni ipocrisia, ciò che la stragrande maggioranza delle persone (politici compresi) pensa ma, per vari e abbastanza intuibili motivi, non dice apertamente.

E l'ho apprezzato soprattutto perché quell'assunto, quell'idea, quella visione sono la descrizione perfetta del modello su cui oggi è imperniata la nostra società: prima viene l'economia, poi, in subordine, l'uomo. Non sto qui a entrare nell'annosa e forse eccessivamente banalizzata questione morire di covid o morire di fame, su cui pure io non ho certezze, mi preme solo sottolineare il fatto che qualcuno, finalmente, abbia ammesso apertamente come è strutturata la nostra società. E cominciare a prendere coscienza di un male è il primo passo da fare in caso si voglia tentare di porvi rimedio.

Arecibo e noi

Mentre leggevo sul blog della Curiosona del collasso del più grande radiotelescopio del mondo, quello di Arecibo, per cinquant'anni l'"orecchio" più potente ad ascoltare l'universo, pensavo che quel crollo potrebbe essere la metafora perfetta per descrivere il decadimento della nostra civiltà. Perché il telescopio è collassato? Per degrado dovuto ad abbandono e incuria. Perché noi stiamo collassando? Più o meno per gli stessi motivi.
Certo, in realtà le motivazioni sono più complesse e ricche di sfaccettature, ma se si va al sodo, al nocciolo, mi pare che ci siamo.

lunedì 14 dicembre 2020

Gilioli chiude

Ho scoperto solo ora che, dopo 15 anni, Alessandro Gilioli chiude il suo blog. Mi dispiace; Piovono rane è sempre stato uno dei miei piccoli-grandi punti fermi nel mondo della blogosfera, e molto raramente ho letto cose meno che intelligenti e oneste, in quello spazio. Peccato.

domenica 13 dicembre 2020

Dichiarazioni

"Cicatrice indelebile", "Ferita alla democrazia". I commenti dei politici (Mattarella compreso) alla commemorazione, ieri, della strage di piazza Fontana sono sempre così asettici, neutri, tranquilli. A me piacerebbe che, per una volta, qualcuno si alzasse e dicesse chiaramente: "La strage di piazza Fontana è stata di matrice neofascista e organizzata con la complicità di pezzi delle istituzioni." 
Poi, certo, è chiaro che Mattarella una cosa del genere non la potrà mai dire per comprensibili ragioni di opportunità legate al ruolo che ricopre, ma che qualcuno, un giorno, si faccia avanti in questo senso, rimane sempre un mio sogno nel cassetto.

sabato 12 dicembre 2020

Perché i classici

A circa tre quarti di lettura del monumentale Anna Karenina di Tolstoj, mi sono accorto di una cosa. Una cosa banale, in verità, che racconto partendo da una breve descrizione di un paio di episodi. Il fratello di uno dei protagonisti del romanzo è costretto a letto gravemente malato; i migliori medici del tempo (il romanzo è ambientato nella Russia della seconda metà del 1800) si prodigano al capezzale del malato ma ogni loro sforzo non sembra dare alcun risultato. Entra in scena la moglie del fratello del moribondo, la quale, accorgendosi delle condizioni esterne in cui giace (la camera è sudicia, maleodorante, la biancheria del letto è sporca ecc.) comincia a lavorare nel senso di migliorare questa situazione: pulisce la camera a fondo, la profuma, cambia la biancheria sporca con biancheria lavata e pulita, lava il malato e cura le piaghe da decubito che sono sorte a causa della mancanza di igiene. In pratica non cura farmacologicamente il malato ma cura la persona e il suo ambiente, al punto che col passare dei giorni questa cura della persona porta giovamento al malato e dei miglioramenti di salute che i medici non erano riusciti a ottenere.

Altro episodio. In una chiacchierata post-prandiale tra alcuni personaggi del romanzo (i protagonisti sono tutti appartenenti alla nobiltà e aristocrazia russa dell'epoca) si parla di controversie sociali, e alcuni di questi si interrogano ad esempio sulla giustezza del fatto che loro passino le loro giornate tra i divertimenti (battute di caccia, corse di cavalli, serate a teatro ecc.) mentre altre persone siano costrette a trascorrere l'intera giornata lavorando nei campi per pochi spiccioli, oppure se sia giusto che alcuni mestieri siano remunerati pochissimo mentre altri moltissimo (che nobili e aristocratici si pongano simili domande è senz'altro meritorio, tra l'altro).

Questi due episodi, in apparenza banali, focalizzano l'attenzione su due questioni che in questi tempi sono di estrema attualità. Una riguarda la spersonalizzazione dell'attività medica, che oggi, nell'epoca dell'efficienza e della produttività, considera il malato un numero, niente più che una sommatoria di organi - concetto già elaborato da Cartesio più di duecento anni fa - invece di considerarlo una persona e curarlo non solo agendo farmacologicamente sul singolo organo malato ma facendo ricorso a quella "umanità" ormai definitivamente perduta. L'altra questione riguarda il gigantesco problema delle diseguaglianze sociali, oggi talmente impellente che molti autorevoli economisti e sociologi lo considerano la causa primaria che porterà l'Occidente a quel collasso sulla strada del quale si è da tempo avviato. (Piccola nota a margine: per capire la gravità di questo problema, consiglio la lettura del saggio La grande frattura, del premio Nobel Joseph Stiglitz, è illuminante.)

Ecco, mentre leggevo il romanzo mi ha colpito il fatto che questi problemi, che a torto si potrebbero inquadrare come contemporanei, fossero già conosciuti più di 150 anni fa. Da qui si capisce l'utilità di leggere i classici e, più in generale, di conoscere la storia. Perché se leggendo Tolstoj ti rendi conto che alcuni dei più gravi problemi del presente erano già noti 150 anni fa e in questo lungo lasso di tempo non solo non sono stati risolti ma si sono pure incancreniti e aggravati, qualche domanda su come è organizzata la società in cui vivi te la poni. In generale, e questa è una nota banalità, conoscendo ciò che è successo in passato si riesce meglio a comprendere ciò che accade oggi. Ecco l'utilità, oltre naturalmente al piacere, della lettura dei tanto vituperati classici: la comprensione del presente. Perché, per quanto siano storie romanzate, sono comunque inserite nel contesto sociale dell'epoca in cui vengono scritte, e la descrizione di questi contesti viene generalmente inserita nell'economia del racconto.

Poi, certo, se si vuole una spiegazione sull'utilità della lettura dei classici fatta come si deve, c'è sempre il grande Umberto Eco, che con le sue leggendarie sagacia, intelligenza, ironia e cultura, lo spiega senz'altro meglio di me.

Mercato

Notavo, per motivi di lavoro, che dal giorno della morte di Maradona le edicole sono invase da montagne di materiale editoriale (DVD, libri, inserti, calendari ecc.). Da lunedì saranno invase di gadget per Paolo Rossi. È il florido mercato della morte tipico di una società dove di tutto si fa mercato.

venerdì 11 dicembre 2020

Il prof di chimica

Sono venuto a sapere poco fa della morte del mio professore di chimica delle superiori. Mi è dispiaciuto. Ricordo che, alla lontana, eravamo in qualche modo parenti e lui mi chiamava bonariamente "nipote", anche se in realtà si trattava di un tipo di parentela molto più distante che adesso non saprei neppure definire esattamente. 
Faceva quello che poteva per aiutarmi ad arrivare al sei, ma neppure tutta la sua magnanimità poteva alcunché contro la mia refrattarietà alla comprensione della materia. Ricordo un compito in classe sulle ossidoriduzioni in cui, con visibile dispiacere, mi appioppò un bel due, aggiungendo di essere stato largo. Le ossidoriduzione furono sempre la mia bestia nera. Ma con tutta la chimica in generale non sono mai andato d'accordo. 
Addio prof, lei è stato fin troppo buono con me.

giovedì 10 dicembre 2020

Il silenzio (dei politici)

Come osserva giustamente Nino Cartabellotta, ciò che più risuona in questa giornata in cui i decessi sono ricominciati a salire (oggi quasi novecento deceduti) è il silenzio dei politici. Siamo il paese, in Europa, col tasso più alto di mortalità di tutta questa seconda ondata e Conte, oggi, stava valutando di allentare alcune restrizioni e di consentire gli spostamenti tra comuni nel periodo a cavallo tra Natale e capodanno. 

A termini di paragone, ieri Angela Merkel ha implorato fin quasi alle lacrime il popolo tedesco, a reti unificate, di stare a casa durante le feste, perché cinquecento morti al giorno sono un prezzo inaccettabile. Qua, con un numero enormemente più elevato di decessi, c'è tutta una incomprensibile frenesia di riaperture, di allentamenti di restrizioni, di fare finta che là fuori non ci sia nessun problema.

Pensavo che noi saremo sempre il paese in cui la politica è sinonimo esclusivo di ricerca del consenso, mentre altrove politica è sinonimo di serietà, coerenza, lungimiranza, disponibilità a sacrificare il consenso in nome di un bene maggiore. Altri pianeti.

Paolo Rossi

Non ho mai seguito il calcio, non mi ha mai interessato, ragion per cui la morte di Maradona mi è passata come una notizia tra le tante. Per Paolo Rossi il discorso è diverso, perché mi riporta a un periodo della vita (nell'82 avevo 12 anni) che ricordo con dolcezza. D'altra parte, siamo legati a persone e avvenimenti celebri perché permettono di evocare particolari periodi della nostra vita, più che per intrinseche peculiarità.

martedì 8 dicembre 2020

Lo pneumatico e il sasso

Poco fa, dal fornaio, ho incontrato un conoscente che non vedevo da un po'. Saluti di rito, "come stai?", "come va?" e cose così. Poi, inevitabilmente, il discorso è caduto sulla pandemia. "Mah, guarda, sì, 'sto virus ci sarà anche, non dubito, ma la gente non muore per quello, la gente muore perché già malata di altro." Ho provato a spiegargli che è vero che gran parte di quelli che muoiono sono persone generalmente anziane e già affette da altre patologie, ma è il virus che aggrava quadri clinici già in parte non buoni portando il malcapitato al decesso. Invano. Allora ho provato a spiegargli il concetto con una metafora e la prima che mi è venuta in mente (abbiate pazienza, erano le sette di mattina) è stata quella dello pneumatico e del sasso.

Gli ho detto: "Immagina uno pneumatico un po' vecchio e un po' malandato, magari con qualche rattoppo ma ancora funzionante e potenzialmente in grado di fare parecchi chilometri. Sulla strada c'è un sasso che il guidatore non vede e prende in pieno col pneumatico malandato, il quale nell'urto si spacca definitivamente rendendolo inutilizzabile e da buttare. Se il guidatore avesse preso il sasso, equivalente metaforico del covid, col pneumatico sano non sarebbe successo niente, al limite si sarebbe leggermente lesionato; avendo invece investito il sasso con la gomma già un po' malandata, quella non ha resistito all'urto. Quindi, direi che una buona parte di responsabiltà, non tutta naturalmente, il sasso (covid) ce l'abbia, no?"
"Mah, sarà..." risponde lui, e ci salutiamo.

Sono comunque sicuro di non averlo persuaso. E del resto non era neppure granché, come metafora.

domenica 6 dicembre 2020

Sul rialzarsi

Comincia a essere abbastanza stucchevole tutta la retorica sul rialzarsi, sull'andrà tutto bene, sulla ripartenza. Più in generale, come va ripetendo il buon Galimberti da tempo, sarebbe ora di smetterla con la puerile convinzione, figlia di una certa ideologia cristiana (cristianesimo qui inteso come inconscio collettivo, non come religione), secondo cui a tutto prima o poi ci sarà rimedio. Credo sia ora di cominciare a realizzare che ci sono situazioni a cui non c'è rimedio, e prima si comincerà collettivamente a rendersi conto di ciò, meglio sarà. Voglio un'elegia della resa.

sabato 5 dicembre 2020

Sulla lunghezza dei post

Ho notato che alcuni blogger tendono a interrogarsi relativamente alla lunghezza dei post sui blog, sia come autori dei propri scritti che come lettori di blog altrui. Gli ultimi a farlo sono stati Moz e Claudia. La cosa mi stupisce abbastanza, se devo essere sincero, per il semplice motivo che, personalmente, nella mia lunga carriera di blogger non mi sono mai posto questo tipo di problema, ammesso che di problema si tratti. Comunque, sintetizzando, mi pare di capire che, in generale, si tende a scrivere post brevi e condensati piuttosto che lunghi e articolati. In primo luogo perché la brevità e la sintesi costituiscono una maggiore attrattiva, per il lettore, rispetto alla lunghezza e alla prolissità, e questo è innegabile; in secondo luogo perché si presuppone che il pubblico che passa in rassegna i vari blog disponga di un tempo relativamente limitato e abbia piacere di leggere un po' di tutto.

Personalmente sono d'accordo con entrambe le considerazioni. D'altra parte viviamo ormai da tempo nell'era della velocità, della fretta, dei pensieri condensati nei famosi 280 caratteri di twitter e delle interazioni immediate e generalmente poco ponderate, quindi è normale che chi ambisca ad ammantare di un certo successo la propria attività di blogger debba per forza valicare le forche caudine dell'immediatezza e della sintesi. Per quanto mi riguarda, i molti anni trascorsi da quando vergai il primo post su queste pagine - correva il 2006 - ne hanno significativamente modificato struttura e funzione, modifiche che rappresentano evidentemente il riflesso del mio modo di concepire questo strumento.

Agli inizi dedicavo molto del mio tempo libero al blog, scrivevo post generalmente approfonditi e articolati in tema di politica, società, informatica, e avevo, giocoforza, un elevato numero di lettori. Poi, col tempo, altre passioni si sono affacciate e hanno preso il sopravvento sul blog, tanto che oggi questa attività occupa una parte molto marginale del mio tempo libero e il blog si è trasformato in una specie di diario in cui, a cadenza abbastanza irregolare, butto giù velocemente pensieri e considerazioni sparse e slegate tra loro. Questo è il motivo per cui, oggi, ho pochi lettori (ma affezionati) e pochi commentatori, cosa di cui ovviamente non mi lamento perché si tratta di una precisa scelta. Oltretutto, interagisco poco con la blogosfera, per cui non è che possa pretendere chissaché, dal momento che, checché se ne dica, nel mondo del blogging vale il do ut des.

Tirando un po' le somme, non mi sono mai posto il problema della lunghezza dei post per il semplice motivo che non mi sono mai posto il problema di essere apprezzato da chi legge. Non per snobismo, intendiamoci, ma perché, come ho già chiarito, lo scopo principale per cui bloggo non è quello di essere un blogger di successo, ma semplicemente quello di scrivere ogni tanto i pensieri che mi passano per la testa, esattamente come farei in un diario. Questo tipo di approccio al blog è la causa del suo poco successo, è vero, ma mi consente di poter scrivere in totale libertà ciò che voglio scrivere, senza preoccuparmi di dover aggiustare lunghezze e parametri vari per attirare un maggior numero di lettori. In sostanza, io scrivo più per me che per i lettori, per cui godo della libertà di fare ciò che voglio, anche a costo di risultare magari antipatico.

Una delle più belle canzoni di Pierangelo Bertoli, A muso duro, recita:

Non so se sono stato mai poeta e non mi importa niente di saperlo / riempirò i bicchieri del mio vino, non so com'è però vi invito a berlo / e le masturbazioni cerebrali le lascio a chi è maturo al punto giusto / le mie canzoni voglio raccontarle a chi sa masturbarsi per il gusto.

Lo spirito del mio bloggare è tutto in queste righe. Prendere o lasciare.

Due minuti

L'aspetto più interessante del confronto tra Corrado Augias e Salvini di qualche giorno fa, non sta tanto nella palese sproporzione intellettuale e culturale tra i due, ma sta in quei "Due minuti!" con cui Augias stoppa in maniera ferma e decisa il suo goffo interlocutore al primo tentativo di interruzione. Perché è interessante questo passaggio? Perché, così facendo, Augias mette in difficoltà Salvini proprio sul suo terreno preferito, che è quello della gazzarra verbale tipica dei talk-show.

Il modus operandi comunicativo di Salvini, se ci avete mai fatto caso, si basa principalmente su due tecniche: confusione verbale e sapiente elusione dei temi contenuti nelle questioni che gli vengono poste. Augias, con una mossa sola, gli ha tolto da sotto i piedi entrambe queste "armi". Intimandogli il silenzio mentre parla lui gli ha tolto la possibilità di buttarla in scontro verbale; riproponendogli pari pari la questione postagli in precedenza dalla signora Berlinguer, che lui naturalmente aveva eluso nel suo solito modo, lo ha costretto a rispondere senza possibilità di scampo.

In questa modo Augias lo ha messo a nudo, permettendo a tutti di vedere il già arcinoto niente che si cela dietro ogni suo slogan.

I balli russi

Leggendo Anna Karenina sto imparando tutto sui grandi balli e le feste danzanti che gli aristocratici e i nobili russi organizzavano alla fine dell'Ottocento, balli a cui partecipavano prìncipi, conti, baroni ecc.

Nella frenesia di tali appuntamenti danzanti era regola che tutti ballassero con tutti, scambiandosi i rispettivi partner ad ogni cambio di danza. "Mi concede questo ballo?" era la frase d'ordinanza che permetteva ai signori di invitare al ballo le signore. Dal momento che tali appuntamenti erano sempre affollatissimi, ad ogni festa era possibile incontrare e conoscere moltissime persone. Conoscenze che spesso evolvevano in amicizie e storie sentimentali più o meno lecite.

E niente, pensavo che gli appuntamenti danzanti di quei tempi erano un po' gli equivalenti ottocenteschi degli odierni social network.

giovedì 3 dicembre 2020

Tra bar e chiese

La differenza di trattamento tra esercizi commerciali come bar e ristoranti (chiusi) e luoghi di culto (aperti) mi pare che abbia poco senso non solo sul piano "terreno", ma soprattutto su quello "ultraterreno", se così si può dire. Se è infatti vero, come si dice, che Dio è dappertutto e se è vero che nei vangeli (Matteo) Gesù ha detto: "...quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà", non si capisce dove sarebbe stato il problema se si fossero chiuse le chiese per un paio di settimane. Chi avesse voluto continuare a intrattenere il suo personale rapporto con Dio avrebbe potuto continuare a farlo tranquillamente anche senza recarsi in chiesa. 
E poi, scusate, pensate davvero che il padreterno, nella sua infinita misericordia, avrebbe avuto qualcosa da ridire sulla chiusura delle chiese per qualche giorno, visto che questo sacrificio avrebbe aiutato a contenere il rischio di diffusione di un virus che sta mietendo centinaia di vittime al giorno?

martedì 1 dicembre 2020

Tempo e qualità del tempo

Sorrido sempre un po' leggendo le felicitazioni e i moti di sollievo generali relativi al fatto che questo orribile 2020 sta per finire, felicitazioni che presuppongono la speranza (convinzione?) che il nuovo anno sarà migliore. 

Non per rompere l'idillio, ma vorrei solo fare notare una cosa che in fondo è una banalità ma a cui magari, spesso, non si pensa: un cambio di data sul calendario non implica necessariamente un cambio di qualità della porzione di tempo che quel calendario misura. In altre parole, il passaggio 31.12 - 1.1 dal punto di vista della scansione del tempo è perfettamente uguale al passaggio 15.2 - 16.2, oppure 12.7 - 13.7 o qualunque altro si voglia prendere in esame. Immaginare quindi che passare dal 31 dicembre al primo gennaio significherà passare da un anno pessimo a uno buono è un po' come pensare che un panetto di burro c'entri con una ferrovia.

Ma noi, si sa, siamo da sempre inguaribili romantici e incalliti sognatori. E in fondo va bene così.

Rosa Parks e oggi

Rosa Parks, il primo dicembre 1955, in una cittadina dell'Alabama, si rifiutò di cedere il posto su un autobus a un bianco, come prevedeva la legge (qui trovate tutta la storia), innescando così quella che sarebbe diventata una delle più grandi battaglie per l'uguaglianza e i diritti civili negli USA, che avrebbe portato la Corte Suprema, un anno dopo, a dichiarare incostituzionale la legge che subordinava la possibilità di sedersi su un mezzo pubblico alla razza. 
Una sessantina di anni dopo, un "politico" italiano chiedeva che a Milano fossero attrezzati mezzi pubblici con posti riservati solo ai milanesi.

Anna Karenina

Ho iniziato ieri a leggere Anna Karenina, di Lev Tolstoj. Il corposo tomo se ne stava da parecchio tempo lì, nel traboccante reparto della mia libreria in cui tengo i libri in attesa. Molte volte ci sono passato davanti, l'ho guardato, ne ho sfogliato le prime pagine, per poi rimetterlo al suo posto. Finché ieri ho rotto gli indugi. Perché? Essenzialmente per due motivi. Il primo ha a che fare col gusto della sfida. Leggere i classici del passato non è come leggere un qualsiasi romanzo attuale delle migliaia che ogni anno vengono pubblicati. C'è sempre quella sorta di... come dire?, timore reverenziale, e anche, perché no?, timore di abbandonarlo a metà, abbandono che per molti lettori ha sempre rappresentato una sorta di sconfitta. 

In realtà, nel mio caso si tratta generalmente di timori infondati. La titubanza iniziale cui accennavo si è infatti sempre risolta in entusiasmo una volta iniziata la lettura. Mi è successo ad esempio con La montagna incantata di Mann, con Moby Dick di Melville, con Grandi speranze di Dickens, con Il conte di Montecristo di Dumas, alcuni dei classici che ho letto quest'anno.

Ma in Anna Karenina il sapore della sfida e la curiosità sono ancora più pregnanti a causa di Francesco Guccini. Guccini, uno che da quando è venuto al mondo si è nutrito di libri, ha ammesso in una intervista di qualche tempo fa di aver abbandonato Anna Karenina dopo un paio di centinaia di pagine. Non perché non gli piacesse, semplicemente perché si era perso (testuali parole) in mezzo alla marea di personaggi che affollano il romanzo di Tolstoj. E se un lettore (e scrittore) come Guccini abbandona un romanzo per questo motivo, insomma è facile intimorirsi, no? 

Comunque sia, io l'ho cominciato. Poi vi saprò dire.

lunedì 30 novembre 2020

The Wall

Quarantuno anni fa, come oggi, usciva l'undicesimo album dei Pink Floyd: The Wall. Non so se tra i miei 32 lettori ci sia qualcuno che non ne ha mai sentito parlare. In caso ci sia, sappia che è un album mitico, leggendario, inarrivabile, articolato, psicologico, onirico, oscuro, a tratti complesso, ispirato, coinvolgente, accattivante, duro, sferzante, cattivo anche, ma anche dolcissimo e poetico. Forse la più bella opera rock che sia mai stata scritta dalla nascita di questo genere di musica.

domenica 29 novembre 2020

[...]

Ho sempre pensato che chi legge un libro, in qualche modo lo riscrive. L'autore porge delle indicazioni ma poi è il lettore che deve saper ricostruire con la sua immaginazione e il suo sapere il mondo in cui si trova a vivere attraverso i corpi estranei dei personaggi.
Per questo considero la lettura una vera gioia amorosa, non per i contenuti che mi offrono i libri ma perché leggere è un grande esercizio di soggettività. Leggendo ci si fa soggetto di una storia, di un discorso, di una riflessione, di una fantasia, di un sogno. E l'intensità di questo farsi non ha limiti, non ha cesure.
È anche per questo che non si può scrivere se non si legge. Senza il lettore la scrittura non esiste e senza la scrittura il lettore non esiste.

Il rapporto tra chi legge e chi scrive, pur essendo un rapporto tra due corpi, non è l'incontro naturale tra due persone che si parlano, si capiscono, si riconoscono: la comunicazione tra i due passa attraverso una convenzione molto complessa che è la scrittura. Il lettore deve decifrare un linguaggio, applicare un codice, compiere un'operazione che presuppone un grande lavoro di concentrazione.
Però, quando ci riesce, si prova un profondo piacere: si scopre di potere vivere tante vite diverse, di potere viaggiare nel tempo e nello spazio. Noi siamo chiusi dentro una vita limitata, prevedibile, spesso asfittica, e i romanzi danno la possibilità di attraversare altre esistenze, altri panorami, calzando altre scarpe, annusando altri odori, in un tempo che non ci appartiene. Quando si compie questo miracolo è come se si realizzasse un incontro al di là dello spazio e del tempo, nel mondo misterioso del possibile.
Il libro è il luogo di questo incontro.

[...]

Una lingua parlata più vicina a quella scritta è nata da noi solo a partire dagli anni Cinquanta. Forse il mezzo di diffusione più efficace è stato la radio. In Germania la traduzione della Bibbia nel Cinquecento ha rappresentato una grande occasione di uniformazione linguistica e ha contribuito alla creazione di una vera lingua nazionale tedesca. In Italia non abbiamo mai avuto niente del genere: perfino la Chiesa con le sue ambizioni universalistiche e democratiche ha usato a lungo solo il latino. Avrebbe potuto diffondere l'italiano, ad esempio attraverso la messa, ma non l'ha fatto che secoli dopo, forse troppo tardi. La sua ritrosia verso il volgare derivava dalla preoccupazione di conservare, attraverso il mistero di una lingua morta, il segreto della sua autorità.
Inoltre la Chiesa ha sempre nutrito un certo sospetto verso la letteratura e ha preteso di svolgere un ruolo di forte mediazione tra libri e lettori. Da noi l'insegnamento religioso, la conoscenza del divino, dovevano essere filtrati dal prete, dalla dottrina, dall'interpretazione ecclesiastica. Perfino il libro che sta all'origine della religione cattolica, il Vangelo. Nessuno insegnava a leggere direttamente, personalmente i testi sacri, mentre nei paesi anglosassoni, protestanti, la Bibbia era in tutte le case. Poi si è aggiunto anche l'Indice dei libri proibiti che per decenni ha proibito la maggior parte dei libri di autori italiani di un certo prestigio e novità.

La Chiesa insomma per secoli ha sostenuto e preteso che la cultura rimanesse sotto tutela e questo ha allontanato gli italiani dalla lettura, frenando l'inquietudine intellettuale che spinge a cercare risposte nei libri. Il principio fondamentale del leggere, infatti, sta nell'assumersi il rischio della conoscenza e il lettore è colui che si avventura al di là dei confini, dei muri delle verità rivelate, in nome della libertà di ricerca, della libertà intellettuale.

(da Amata scrittura, Dacia Maraini, 2000)

sabato 28 novembre 2020

Altri 132 voti

Leggo che Donad Trump ha speso tre milioni di dollari per fare effettuare il riconteggio dei voti in due contee del Wisconsin, tra cui Milwaukee. Terminato il riconteggio, la commissione elettorale incaricata dell'operazione ha assegnato a Biden altri 132 voti erroneamente non attribuitigli dopo il primo spoglio elettorale. E niente, dal presidente (per fortuna ex) più ridicolo della storia degli USA, è tutto.

venerdì 27 novembre 2020

L'uccisione del drago

Ho appena terminato L'uccisione del drago, uno dei racconti di Dino Buzzati contenuti nel libro Sessanta racconti (ogni tanto, tra la fine di un libro e l'inizio del successivo, mi distraggo un po' leggendo altro). Il racconto in questione l'ho trovato brutto, scadente: privo di mordente, infantile, sconclusionato, e poi quel finale tronco che praticamente è un non-finale. 
Ho spesso lasciato a metà e cestinato i miei racconti, quando li scrivevo, perché a volte, rileggendoli, li trovavo brutti, sconclusionati, infantili, privi di mordente, e adesso scopro che le stesse impressioni le provo leggendo alcuni racconti di Buzzati. Intendiamoci, non mi paragono certo a lui, non intendo ridicolizzarmi, solo mi rendo conto che a volte, forse, sono stato troppo severo nei confronti delle mie, pur limitate, velleità narrative.

giovedì 26 novembre 2020

Televisione e scienza

Una volta, in TV, c'era Piero Angela che spiegava la scienza e la voce ufficiale della scienza in TV era Piero Angela. Stop. Oggi ho come l'impressione che tutto il suo lavoro di anni e anni di meritoria divulgazione sia stato buttato nel cesso dalla pletora di scienziati e pesudoscienziati che affollano ogni canale nell'arco delle 24 ore, un affollamento con relativo profluvio di pareri, spesso contrastanti tra loro, che è inevitabile che generino e diffondano dubbi e timori generalizzati, specie in una massa indistinta di persone che, triste realtà del nostro paese, con la scienza ha pochissimo feeling (la diffusione dei vari no-vax, terrapiattisti ecc. origina da qui).

Ora, se io mi imbatto in un dibattito televisivo sui vaccini tra, che ne so?, Roberto Burioni e Red Ronnie non ho difficoltà a capire chi dei due racconta palle, perché so che il primo è uno scienziato che li studia da quasi quarant'anni e il secondo è un disc jockey che parla di vaccini dopo dieci minuti su Google. Il problema nasce quando, sempre relativamente ai vaccini, i pareri discordi sono tra Burioni e Ilaria Capua, entrambi con alle spalle una vita dedicata alla scienza e allo studio di questi temi. Ho citato Burioni e la signora Capua solo perché rappresentano l'ultimo esempio in ordine di tempo di questa difformità di vedute tra scienziati riguardo ai suddetti temi, ma, se ricordate, solo pochi giorni fa analogo episodio successe tra Andrea Crisanti e Pierpaolo Sileri relativamente alla triade di vaccini anti-covid che a breve dovrebbero arrivare. E andando indietro nel tempo se ne trovano tanti altri simili.

Tempo fa, forse qualcuno ricorderà, girava in rete un video in cui Luc Montagnier, prestigioso biologo e virologo francese e premio Nobel per la medicina nel 2008 per i suoi studi sul virus dell'Aids, intervistato da una emittente televisiva transalpina affermava che il coronavirus era plausibilissimo che fosse stato creato in laboratorio, laddove invece la totalità della comunità scientifica sosteneva, e sostiene tuttora, l'infondatezza di questa affermazione. La diffusione di quel video, come è facile immaginare, offrì il destro alla marea di complottisti per dire: "Visto che abbiamo ragione? Il coronavirus è stato creato in lavoratorio. Lo dice pure Luc Montagnier!"

In tempi un po' più lontani fece scalpore un intervento di Carlo Rubbia, uno dei più noti fisici a livello mondiale, il quale, in una audizione nella sede del parlamento italiano affermò che non era vero che il riscaldamento globale stava aumentando con l'intensità di cui parlavano tutti gli scienziati e i climatologi, anzi secondo lui il processo era addirittura in fase regressiva. Come con Montagnier, questo intervento di Rubbia ringalluzzì la folta schiera dei negazionisti del riscaldamento globale col solito ritornello: "Lo dice anche Rubbia!"

In realtà, sia Montagnier che Rubbia non dissero due inesattezze, fecero semplicemente due affermazioni prive di riscontri. Perché? Perché in ambito scientifico è previsto che un assunto acquisti patente di veridicità e validità solo dopo la pubblicazione su apposite riviste scientifiche e la verifica della sua fondatezza da parte della comunità scientifica. Nessuno impedisce a Montagnier e Rubbia di affermare ciò che sostengono, ma se vogliono che le loro affermazioni diventino verità scientifica devono seguire un preciso modus operandi che nel loro caso non è stato seguito, dal momento che nessuno dei due ha pubblicato da nessuna parte ciò che ha affermato, sottoponendolo al vaglio della comunità scientifica.

Queste cose chi si interessa un po' di scienza le sa, ma, come scrivevo prima, la stragrande maggioranza di chi guarda la televisione e bazzica sui social, no. Qui, allora, oltre al problema della discrepanza di vedute tra scienziati si affianca quello, certo non meno grave, del livello di amplificazione mediatica che si dà a queste difformità di pareri, e non è complicato capire che se a una comunità teledipendente che di scienza non sa niente si danno in pasto giornalmente diatribe tra scienziati, poi non ci si può stupire che da tale "ecosistema" proliferino i no-vax e Red Ronnie acquisti la stessa autorità scientifica di Burioni.

Quando io ero piccolo non esisteva il problema vaccino sì e vaccino no: si facevano e basta, perché il medico di famiglia li prescriveva e Luciano Onder su Raidue ne decantava le lodi. In più internet e i social non esistevano e non esistevano neppure politici tuttologi con la felpa che dichiaravano su twitter che dieci vaccini obbligatori sono troppi e potenzialmente pericolosi. Certo, l'ignoranza generale e i dubbi su questi temi c'erano anche ai miei tempi, ma siccome non c'era modo di propalarli tramite internet e TV, i vaccini si facevano e zitti. E se facevo storie, mia mamma era pure capace che mi desse uno scapaccione.

Come si esce da questa situazione? Non si esce. Ci vorrebbe un innalzamento culturale generale e, specie in questi tempi di pandemia in cui molte certezze tendono a crollare, bisognerebbe che la scienza parlasse con poche voci, possibilmente univoche e autorevoli, cosa che non si verificherà mai. Con buona pace di Piero Angela.

martedì 24 novembre 2020

Il golpe Borghese

Forse non tutti sanno che nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970, in Italia era prevista l'attuazione di un colpo di stato militare organizzato da Junio Valerio Borghese, con la complicità della P2 di Licio Gelli (lui c'è sempre), Cosa nostra e Avanguardia nazionale assieme a una componente rilevante del mondo politico, dei servizi segreti e delle forze armate. Valerio Borghese, militare del Regio esercito che poi si schiererà con la Repubblica sociale italiana, organizzò il golpe militare per impedire che il Partito comunista italiano, che in quegli anni aveva in Italia il consenso più alto tra tutti i paesi europei, andasse al governo. 

Per motivi mai del tutto chiariti, poche ore prima dell'orario stabilito e con molti appartenenti al complotto già operativi, Borghese annullò tutto, fuggendo successivamente in Spagna per sfuggire agli arresti. 

Mi sono imbattuto per caso in questo video in cui il bravissimo Massimo Polidoro riesce a raccontare in un quarto d'ora, con dovizia di particolari, tutta la storia. Se vi va, dateci un'occhiata. È un episodio poco conosciuto della nostra storia, che se fosse andato come era stato pianificato ne avrebbe cambiato il corso. E sicuramente non in meglio.

Normalità

Non so se ci avete fatto caso: cinque, sei, settecento morti al giorno stanno diventando la normalità, non ci facciamo più neppure caso, sono ormai normale contabilità da affiancare alle previsioni del tempo o ai problemi di Totti. Non è una critica, eh, né stigmatizzazione di un atteggiamento apparentemente improntato al cinismo. Anche perché presumo che tale atteggiamento sia il risultato di un preciso processo mentale e psicologico più che di cinismo.

lunedì 23 novembre 2020

Un'altra leggina per lui

A dimostrazione (una delle tante) che nel nostro paese i cambiamenti sono solo di facciata, mai di sostanza, c'è la polemicuccia di queste ore in merito a un provvedimento salva-Mediaset che il governo starebbe per infilare in uno dei prossimi decreti, provvedimento in merito al quale, anche qui prassi consolidata, tutti, ora che la storia è venuta a galla, ne disconoscono naturalmente la paternità.

Per chi si interessava di politica negli anni infausti in cui il tipo delle cene eleganti era al centro dell'agone politico, questo non è in realtà nient'altro che un simpatico déjà vu. E oggi, incredibilmente (neanche tanto, poi), in mezzo a una pandemia globale e a un disastro economico e sanitario senza precedenti (disoccupazione a due cifre, tracollo del Pil e altro) siamo tornati ancora lì a fare leggine confezionate appositamente per lui, come se non fosse tutto un orribile già visto, già sentito, già vissuto.

Siamo senza memoria, senza pudore, e ancora diamo incredibilmente credito a un personaggio che è stato forse uno dei più pericolosi attentatori a quel poco di democrazia che già allora avevamo e colui che è stato probabilmente il maggior responsabile del tracollo etico, morale e culturale di questo paese. Così, come se niente fosse, senza memoria e senza onore.

domenica 22 novembre 2020

Parole amate

Stavo pensando che gran parte della mia vita si svolge in mezzo alle parole. Parole lette (una marea) e parole scritte (una marea più contenuta ma comunque importante, come testimoniano gli oltre 8000 post vergati su queste pagine). Le parole sono affascinanti. Quando si vive con le parole si impara ad amarle, anche a rispettarle, e ciò genera in chi vive con esse quel senso di fastidio che nasce quando ci si accorge che spesso vengono usate a caso, oppure che si eccede in strumentali forzature semantiche che ne alterano il significato precipuo. 

Certo, la lingua non è qualcosa di statico, granitico; evolve, cambia, si modifica. Se leggete Buzzati, ad esempio, ma anche altri dello stesso periodo, trovate valige invece di valigie. E va benissimo, perché fino alla metà del secolo erano corrette entrambe le diciture, a differenza di oggi. Amo talmente le parole che ho intenzione di comprare un dizionario etimologico. Sì, lo so, c'è Google, ma lo voglio cartaceo, come cartacei sono tutti i libri che leggo. 

Anni fa, ricordo, tenevo un dizionario sottomano ogni volta che leggevo un libro di Umberto Eco, perché in alcuni suoi romanzi sono frequentissimi lemmi difficili (per me) e desueti, e io volevo sapere cosa significavano. L'ho un po' odiato, per questo, a Eco, odio che poi spariva davanti alla bellezza di opere come Il pendolo di Foucault o L'isola del giorno prima. Voglio un dizionario etimologico perché amare le parole significa anche essere curiosi relativamente alla loro origine: come sono nate, come si sono formate, se derivano da radici greche o latine e così via.

Molti anni fa, quando io ero piccolo e la televisione aveva ancora un minimo di funzione educativa, prima di ridursi a quella specie di cloaca con la missione di uccidere il pensiero che è poi diventata con l'avvento del berlusconismo (ma anche prima), c'era una trasmissione in fascia preserale che si chiamava Parola mia. Era condotta da un garbatissimo Luciano Rispoli a cui era affiancato uno dei maggiori studiosi della lingua italiana dell'epoca: il professore Gianluigi Beccaria. Una trasmissione tutta dedicata alle parole e alla lingua italiana, che oggi farebbe ascolti da prefisso telefonico ma che allora, quando in giro c'era ancora un po' di interesse per la cultura, era seguitissima. Credo che buona parte della mia passione per le parole sia nata anche da lì, tra le altre cose. 

Stephen King ha scritto, una volta, nella postfazione di un suo libro di cui non ricordo più il titolo: "Bisogna essere ghiotti di parole, bisogna tuffarcisi e rotolarcisi in mezzo. Le parole sono come l'aria, senza non si vive." Esagerata, certo, come affermazione, ma l'idea la rende benissimo.

Voce nel deserto

È quasi commovente la ostinazione con cui questo papa continua a scagliarsi, quasi quotidianamente, contro i mali del sistema economico globale, quel sistema estremamente squilibrato in cui il 20 per cento dell'umanità consuma l'80 per cento delle risorse con tutto ciò che ne consegue in termini di ingiustizia sociale, aumento della povertà, delle diseguaglianze, e che è in massima parte responsabile della migrazione di milioni di persone. 
Non è un papa comunista, come molti, ironicamente e superficialmente, lo definiscono a destra, è semplicemente un papa che a differenza dei suoi predecessori mette le persone davanti ai principî e che trova sintonia con chi si batte per tornare a un modello sostenibile di economia. Poi, certo, si tratta di appelli che non serviranno a nulla, perché il mondo si è incanalato in una strada da cui ormai non può più tornare indietro, ma fa piacere che ancora ci sia una voce autorevole che cerca di tenere alta l'attenzione su questi temi.

sabato 21 novembre 2020

Sulla morte

Sotto la giurisdizione della scienza, il "corpo biologico" ha diritto alla vita, intesa non come esistenza, ma come prolungamento quantitativo, sui cui sorveglia vigile la tecnica bio-medica nell'intento di garantire a ciascuno di giungere al termine del suo capitale biologico. Ciascuno è così espropriato della propria morte, non può morire come vuole, e quindi neppure vivere consumando come vuole la propria vita, perché il "diritto" a una morte naturale diventa anche il suo "dovere". Ma che cos'è una morte naturale se non quella che cade sotto la giurisdizione della scienza? In questo modo la scienza si ripropone surrettiziamente come colei che tiene la barra tra la natura e l'irrazionalità che la minaccia, per cui può trasformare quel fatto inumano, insensato e assurdo che è la morte nella razionalità dell'evento naturale.

Inclusa la "morte naturale" nello spazio della ragione, che è poi lo spazio che resta quando si esclude tutto ciò che la scienza non riesce a spiegare, la vita, espressa in quella valutazione quantitativa con cui la medicina la contabilizza, rimane esposta a quell'incalcolabile che è l'accidente e la catastrofe, che sono tali solo per quella logica disgiuntiva che, per aver fatto della vita un valore assoluto, non può fare a meno di relegare nell'assurdo e nell'incomprensibile tutto ciò che la minaccia.

Non così per i primitivi che, nei loro scambi simbolici e ambivalenti con tutto ciò che li circondava, erano in grado di comprendere la catastrofe, l'accidente, la malattia, la morte violenta e imprevista, che per noi sono diventati l'assurdo della ragione, l'inintelligibile puro, la riluttanza ostinata e perversa di una natura che non vuole sottostare alle leggi "oggettive" della scienza.

"Naturale" è la morte per vecchiaia, quella che tutti accettiamo perché ubbidisce a quell'itinerario biologico che è poi il modello con cui la scienza ci ha abituati a pensare il nostro corpo. Ma proprio perché siamo persuasi della "naturalità" di questa sopravvivenza che ogni giorno, grazie alle tecniche mediche, guadagna la vita sulla morte, la terza età perde senso, se non diventa addirittura un "peso morto", al contrario di quanto accadeva presso i primitivi dove il vecchio era un'espressione simbolica fondamentale per il gruppo.

[...]

La vecchiaia è una ricchezza solo se l'esperienza acquisita può essere scambiata in una dinamica di gruppo come accadeva presso i primitivi, ma quando questo scambio simbolico si rivela impossibile, la vecchiaia diventa un insignificante accumulo di anni che la società atomizzata deve sopportare e sopporta, traducendo in una morte sociale anticipata la vita biologica inutilmente guadagnata perché non scambiata. Resa "naturale" dalla vecchiaia che la scienza medica ha prolungato, la morte non commuove più; circoscritta nella cellula familiare è seppellita senza lutto e senza quella festa con cui i primitivi, per i quali non esisteva una morte "naturale", propiziavano gli spiriti avversi che quella morte avevano procurato. Liberandoci da queste "superstizioni primitive", la scienza medica ci ha liberato anche del significato collettivo della morte, per cui si muore da soli, per ineluttabilità "biologica", "naturalmente", senza partecipazione. 

Non è un caso che oggi si ritrovi la partecipazione di gruppo solo di fronte alla morte violenta, quella che avviene in piazza, non per usaurimento di un processo biologico, ma per attentato, per passione politica, per un'idea. Sono le morti che assomigliano al sacrificio dei primitivi, le uniche che si caricano di valenze simboliche e che perciò si scambiano, circolano nel gruppo che si incarica di rivivere quella vita, e nel momento della sepoltura grida "è vivo!" Non si tratta infatti della morte "insensata" che avviene sotto l'equivalente generale delle leggi di natura, ma della morte che si scambia tra i componenti del gruppo, quella data e ricevuta, l'unica che abbia senso, e che perciò muove le folle. Insopprimibilità del simbolico, rivincita del corpo sul suo simulacro biologico.

[...]

Ponendosi come controllo progressivo della vita, la medicina ha sacralizzato se stessa, e i medici hanno ottenuto per sé quella venerazione che un tempo riscuotevano i sacerdoti delle antiche religioni. Sopravvivenza ultraterrena allora, sopravvivenza terrena oggi. Dalla "salvezza" alla "salute" la logica è sempre quella della presentazione della vita come valore, con conseguente rifiuto della morte che sfugge alla legge del valore. In questo senso, e solo in questo senso, la morte è un male che la medicina cerca di controllare con quella serie di procedure che, disponendo della morte, impongono la vita. Organi artificiali, rianimazione intensiva, agonie prolungate a qualsiasi costo, trapianti d'organo, che finalità perseguono se non il riconoscimento incondizionato del valore biologico della vita, senza la minima considerazione della sua qualità esistenziale? Ciò che è stato consacrato, ciò a cui è stato riconosciuto un valore assoluto, ancora una volta non è la vita del corpo, che non ha mai temuto si scambiarsi con la morte come nell'esperienza suicida, ma quella del suo simulacro biologico.

È su questo simulacro che veglia la medicina col suo rigoroso controllo su tutta l'estensione della vita e della morte. Obbligando a sopravvivere e impedendo di morire, la medicina svolge il ruolo di controllo repressivo, sottraendo a ciascuno la libertà della propria vita e della propria morte. Negata la morte decente, quella personale, quella che uno si sceglie, siamo consegnati alla morte "biologica" sotto controllo medico. Una morte che, a differenza del suicidio, non sfida la società e non la accusa delle "condizioni di vita" a cui la obbliga. Dissuasione dalla morte attraverso una continua mortificazione, questa la condizione fondamentale con cui si assicura la vita nelle nostre società, esattamente come nell'ascesi cristiana, dove ci si assicura la salvezza e la vita eterna attraverso una accumulazione continua di sofferenza e di penitenza.

Nel tentativo di allontanare la morte come atto finale e antagonista della vita, abbiamo finito col diffonderla in tutti i luoghi in cui la nostra vita si propaga. Di qui l'intervento della medicina preventiva con le sue vaccinazioni, le sue norme per la sicurezza del lavoro, l'educazione scolastica, l'igiene, il controllo delle nascite, dei virus, delle epidemie, per cui la malattia viene accerchiata e la società medicalmente investita e in ogni settore controllata non solo dai medici che vigilano sulla salute pubblica, ma dalle istanze politiche che vigilano sull'esercizio della medicina.

(segue)

(Tratto da Il corpo, Umberto Galimberti, 1983)

Salvare il Natale

Sembra che ci sarà una "finestra" nelle restrizioni per "salvare il Natale," dicono. È palese, credo, che ciò che si vuole salvare non è il Natale in sé, del quale peraltro credo non freghi nulla a nessuno, ma l'indotto generato dalla festa; si vuole cioè salvare il lato economico-consumistico della ricorrenza religiosa. 
Niente di male, intendiamoci, dal momento che la società che abbiamo costruito si regge su questo - non sto certo qui a fare moralismi. Sarebbe però ora che le cose cominciassero a chiamarle e a descriverle per come sono realmente. Ormai siamo grandi, no?

venerdì 20 novembre 2020

Vaccino a gennaio?

Non so se, come dicono autorevoli personalità, il vaccino anti-covid sarà disponibile a gennaio. In ogni caso, che sia gennaio, febbraio o anche più avanti, non appena ci sarà la possibilità e il mio medico mi darà il suo benestare, lo farò, e i timori di eventuali effetti collaterali indesiderati non saranno maggiori di quelli che compaiono in occasione di ogni altra vaccinazione, tipo ad esempio quella contro la normale influenza. Questo per quanto mi riguarda, poi, ovviamente, ognuno si regoli come crede, dal momento che comunque non sarà obbligatorio.

Il Papa e la modella

Mi stavo chiedendo se la spiegazione più semplice non sia che il like l'ha effettivamente messo Bergoglio. Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. E poi, pensandoci, sarebbe la soluzione più in linea in relazione alla filosofia del rasoio di Occam, no?
(Sto scherzando, naturalmente.) :-)

mercoledì 18 novembre 2020

La maestra e i personaggi squallidi

Leggendo della maestra d'asilo licenziata a Torino ho pensato alcune cose. La prima è che tutti i personaggi che ruotano attorno a questa storia sono infinitamente più squallidi e peggiori dell'involontaria protagonista; la seconda è che se questa vicenda fosse capitata a me, ai tempi in cui le mie figlie andavano all'asilo, la mia preoccupazione maggiore non avrebbe riguardato il modo in cui la loro maestra nel suo privato viveva la propria sessualità, mi sarei preoccupato semmai che le mie figlie non fossero cresciute come i personaggi squallidi che con la loro meschinità e il loro bigottismo ne hanno provocato l'ingiusto licenziamento.

martedì 17 novembre 2020

Stay

Stavo ascoltando Stay, di Jackson Browne, poco fa, e mi è venuto in mente che Jackson Browne lo conobbi tramite un amico dei tempi dell'adolescenza. All'epoca io ero uno dei ragazzetti che frequentavano la parrocchia, e nella cerchia della compagnia c'erano dei ragazzi un po' più grandi che guidavano i vari gruppi. Lui era uno di questi. Oltre a farmi conoscere Jackson Browne mi insegnò i rudimenti della chitarra, i primi accordi. Poi, col tempo, ci siamo persi di vista e ognuno è andato per la sua strada. Io sono rimasto un umile operaio che abita ancora nello stesso posto di allora; lui, da quello che so, è attualmente uno stimato ricercatore in ematologia in una prestigiosa università canadese, credo a Hamilton. Strana la vita, imperscrutabili le strade su cui si incamminano le persone.

domenica 15 novembre 2020

Perché è nato l'universo

Si può tornare indietro nel tempo? Nei film e nelle serie tv, sì, si può fare. Chi ha visto ad esempio la serie Dark - I segreti di Winden, serie che ho terminato a fatica tra reiterati sbadigli e assopimenti in corsa, sa di cosa parlo. Ma anche nella realtà si può tornare indietro nel tempo, e gli scienziati lo fanno tutti i giorni. I fisici delle particelle che lavorano al CERN di Ginevra, ad esempio, lo fanno abitualmente, facendo correre e scontrare protoni a velocità prossime a quella della luce e ad altissima energia nel tunnel di 27 chilometri che si trova sotto i laboratori. Così facendo, ricreano le condizioni ambientali assomiglianti a quelle degli istanti successivi al leggendario Big Beng, l'evento che 13,8 miliardi di anni fa diede origine all'universo.

Ma ci sono altri modi per viaggiare all'indietro nel tempo, come ad esempio osservando le stelle. La luce di quelle più vicine a noi e visibili a occhio nudo, ad esempio, è stata emessa grosso modo circa tre anni fa. Se si considera che la luce viaggia a trecentomila chilometri al secondo si può avere l'idea di quanto sia distante la stella che vediamo. È addirittura possibile che la stella di cui noi oggi vediamo la luce non ci sia neppure più. Analizzandone la luce e le onde elettromagnetiche emesse e catturandone le caratteristiche è possibile capire come era fatta e quindi viaggiare nel tempo all'indietro.

Ho trovato, bazzicando su YouTube, una conferenza di Guido Tonelli, fisico delle particelle. Mi è talmente piaciuta che l'ho riguardata due volte. Una delle parti più interessanti è quella in cui lo scienziato spiega non come l'universo sia nato, ma perché sia nato. Il perché, a differenza del come, è una delle domande su cui scienziati e filosofi si sono arrovellati per secoli e a cui la risposta è stata data solo recentissimamente, e Tonelli ne dà una spiegazione chiarissima - sintetizzando brutalmente, la nascita dell'universo è stata possibile grazie a una fluttuazione del vuoto, ma si tratta appunto di una spiegazione che di per sé non dice nulla, specie ai profani.

Io non capisco nulla di queste cose, dal momento che di fisica ho solo vaghissime reminescenze delle superiori (una delle cose che ricordo è che la luce del Sole impiega circa otto minuti per arrivare qui sulla Terra, se non ricordo male), ma Tonelli è riuscito a spiegare concetti difficili talmente bene che pure io ci ho capito qualcosa, e ne sono rimasto affascinato. Se a qualcuno interessa, la conferenza in questione è qui.

Carola Rackete

Ho ammirato e stimato Carola Rackete quando, due estati fa, disattendendo le direttive disumane del ministro della paura, entrò in porto a Lampedusa e fece sbarcare il suo carico umano salvato dal naufragio. Continuo ad ammirarla anche adesso, dopo che in Germania è stata fermata dalla polizia per aver manifestato in difesa di una foresta di alberi secolari, destinati ad essere abbattuti per fare posto al prolungamento di un'autostrada. Ammiro questa ragazza perché, in generale, il suo agire è improntato a degli ideali. Ideali che possono essere condivisibili o meno, questo è pacifico, ma comunque giusti, e in entrambi i casi improntati alla considerazione dell'uomo come fine e mai come mezzo, cosa che predicava già più di due secoli fa un certo Kant.

Natale e pandemia

Trovo abbastanza irritante tutta la polemica attorno alle festività natalizie: parenti sì, parenti no, cenone sì, cenone no. Siamo dentro a una pandemia globale e molti non ne hanno ancora compreso la gravità, evidentemente. E poi, e qui parlo a titolo personale, ho sempre trovato il pranzo di Natale coi parenti uno dei supplizi più noiosi e irritanti dell'intero anno, probabilmente anche a causa della mia misantropia. Quest'anno, finalmente, il pranzo non si farà. Sapete cosa vi dico? Alleluia!

Ma in generale, rivolgendomi a chi queste cose le apprezza (va benissimo, intendiamoci), chiedo: possibile che sia così difficile rinunciare per una volta a qualcosa di caro in nome del bene comune? Non siamo stati capaci di rinunciare alle discoteche, alle vacanze, ai divertimenti, non abbiamo rinunciato a nulla, ce ne siamo bellamente sbattuti, e ce ne sbattiamo ancora, di ogni basilare accorgimento di sicurezza, e adesso ci troviamo di nuovo in emergenza: non vogliamo neppure saltare un pranzo di Natale sapendo che le terapie intensive sono quasi al collasso e tutto il sistema sanità è già quasi bloccato? 

Non siamo più in una situazione normale; la normalità, se e quando ci sarà ancora, è ben lontana dall'orizzonte; probabilmente non si tornerà a come eravamo prima neppure col vaccino, e prima ce ne renderemo conto, prima torneremo a vivere.

sabato 14 novembre 2020

Di vaccini e di barbieri

Giovedì mattina, dal barbiere. Mi siedo aspettando il mio turno. Nel frattempo il barbiere taglia gli ultimi ricci al tizio che c'è prima di me. I due chiacchierano. 
"Va' là che se anche arriva il vaccino io non lo faccio: va' a capire cosa ci mettono dentro. Quello magari ti guarisce dal covid e ti fa ammalare di qualcos'altro. Io non mi fido" dice il tipo sulla poltrona. 
"Eh, mi sa che non lo faccio neanch'io," replica il barbiere, "hanno fatto troppo presto, non può essere una cosa buona. E poi io non mi sono mai fidato troppo dei vaccini."
Ora, premesso che un vaccino non guarisce perché non ha effetti terapeutici ma solo preventivi (qui siamo proprio all'ABC, eh), noto che in generale le italiche genti si dividono tra chi prega che il vaccino arrivi il prima possibile (io sono tra questi) e chi, anche quando arrivasse, dice già che non lo farà perché non si fida. Tra l'altro, il discorso che ho sentito dal barbiere non è una novità, mi è già capitato di sentirlo da colleghi, conoscenti ecc. 
E niente, pensavo che siamo un paese allegramente distopico e asincrono che se ne sta a cazzeggiare di nulla sull'orlo del baratro.

giovedì 12 novembre 2020

Patriots

Esattamente quarant'anni fa usciva Patriots, uno degli album più belli e meno venduti di Franco Battiato. L'anno dopo, 1981, vedrà invece la luce il leggendario La voce del padrone, primo album di un cantautore italiano a superare il milione di copie vendute. Patriots conteneva già tutti gli elementi che avrebbero poi fatto il successo travolgente de La voce del padrone, ma non se ne accorse nessuno, tutti impegnati coi vari Battisti, Baglioni con le loro nenie in stile cuore e amore che guardavano al pubblico romantico dei cuori infranti.

Battiato era già oltre. Per quei tempi era uno che veniva dal futuro, fuori da ogni schema fino ad allora conosciuto, col suo pop acustico/elettrico/elettronico a tratti facile, a tratti difficile, e quei testi provocatòri, colti, infarciti di citazioni letterarie, tanti piccoli quadretti solo apparentemente stralunati e occhieggianti al nonsense. 

Quando uscì Patriots ero ancora un imberbe ragazzetto e ricordo perfettamente che cosumai la musicassetta magnetica (pirata, tra l'altro) a forza di ascoltarlo. Per chi non abbia idea di cosa sto parlando, e immagino siano parecchi, lascio i link a tre dei pezzi più belli di quell'album: Frammenti (qui), Up patriots to arms (qui) e Prospettiva Nevski (qui).

(Segnalazione per i più temerari. Anni fa, in preda a una sorta di rapimento mistico procatomi dalla bellezza di Prospettiva Nevski, decisi di pubblicarne una mia versione accompagnandomi al pianoforte. La rovinai completamente, come del resto era naturale che sarebbe stato, ma ormai il danno era fatto e decisi di lasciarla online. Ancora oggi spero che Battiato non la veda mai. I forti di stomaco la possono ascoltare qui.)

Mentalità di guerra

Dice il neo segretario della Nato che dobbiamo passare a una mentalità di guerra, che vuol dire dedicare una quota maggiore delle nostre sp...