sabato 28 agosto 2010

Balle straordinarie sul processo breve

Questo articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale.


Questa mattina il Corriere apre in prima pagina con una fantastica intervista al ministro della Giustizia (brrr...) Angelino Alfano. L'argomento è il "processo breve", ribattezzato poi "processo certo" o di "giusta durata" (sapete com'è, il nome ha una sua importanza). In sostanza il ministro rivela quello che già si sapeva da tempo immemorabile: alla ripresa dei lavori parlamentari l'approvazione di questa porcata sarà inderogabile. Pena il ritorno alle urne.

Siccome, nonostante quello che sembra, gli italiani non sono tutti una massa di tonti, Alfano ha capito che occorre indorare un po' la pillola, e quindi ha promesso che questa "riforma" sarà accompagnata da una sostanziosa elargizione di risorse. Naturalmente, visto che in cassa non c'è un soldo si guarda bene dal dire a quanto ammonteranno queste risorse e soprattutto dove verranno prese. Ma in fondo sono particolari trascurabili. Quello che conta davvero è l'approvazione certa e in tempi rapidi del provvedimento - vi ricordate no?, a dicembre la Consulta si esprimerà sul legittimo impedimento.

La giurisprudenza della Cassazione e della Corte di Strasburgo ormai impone allo Stato italiano, ogni anno, milioni e milioni di euro di risarcimenti proprio per la lentezza cronica della giustizia. E c'è un'apposita legge, la famosa legge Pinto, che stabilisce come ottenere i risarcimenti. Tutti questi soldi potranno essere «risparmiati» ed impiegati per migliorare l'efficienza della macchina giudiziaria, cioè potranno servire per quegli «investimenti straordinari» che il ministro annuncia oggi.

Perbacco, un'occasione da non perdere allora. Peccato che la riforma che ha in mente Alfano in questo senso non servirà a un fico secco. Lo scrive Vittorio Grevi sulla stessa edizione del Corriere a corredo dell'intervista di Alfano. Scrive Grevi:

Nessun dubbio, dunque, che si debba operare nel senso di una riduzione dei tempi dei giudizi (sia civili, sia penali), oggi spesso davvero intollerabili. E nessun dubbio nemmeno sulla diagnosi del male che affligge il sistema della nostra giustizia, da anni ormai individuato senza equivoci nell'arretratezza delle strutture giudiziarie, nelle disfunzioni anche organizzative che le zavorrano, nella penuria delle risorse disponibili, e, infine, anche in certi superflui formalismi e in certe inutili macchinosità della disciplina processuale. Se ciò è vero, una volta accertate le cause del male, non dovrebbe essere troppo difficile realizzare anche le terapie per uscire da una situazione tanto disastrata, operando anzitutto nel senso di un recupero di efficienza sul terreno delle strutture giudiziarie, della loro organizzazione anche territoriale (si pensi all'annoso problema della revisione della geografia degli uffici), e, naturalmente, anche sul terreno del necessario snellimento delle procedure.
Nulla di tutto questo, invece, emerge dai «punti programmatici» elaborati dal presidente Berlusconi per il rilancio del suo governo. All'interno di quel testo, infatti, accanto a proposte di riforme costituzionali (ad esempio in tema di separazione delle carriere o di composizione del Csm), senza dubbio però prive di rilevanza ai fini dell'accellerazione dei ritmi processuali, non si trova nessuna proposta specificamente mirata allo scopo - pur proclamato - di garantire ai cittadini «la certezza dei tempi necessari» ad ottenere «una sentenza definitiva».

Ma come? Allora a cosa serve il processo breve? Anzi, a chi serve? Lo spiega sempre Grevi nel prosieguo dell'articolo.

Senonché, per questa via, non si ottiene un accorciamento dei termini di svolgimento dei processi penali, che per loro natura devono concludersi con la pronuncia di una sentenza sul merito dell'accusa. Si provoca soltanto, invece, una irragionevole morte prematura di tali processi, tradendo così la promessa di assicurarne «tempi certi» fino alla «sentenza definitiva».
Ci si illude di risolvere il problema attraverso la tecnica del processus interruptus: senza rendersi conto che, in tal modo, si nega la stessa ragion d'essere del processo, e dunque senza alcun rispetto per gli interessi (delle vittime del reato, oltre che della collettività) legati all'accertamento dei fatti e delle responsabilità. Se poi si prevede (come ha già fatto il Senato) la operatività di analogo meccanismo anche per alcune ben definite categorie di processi in corso, in rapporto ai quali i nuovi termini sono magari già scaduti, è difficile non ravvisare in una scelta del genere le movenze sospette di una «amnistia mascherata».

Il riferimento, naturalmente, è alla famosa "norma transitoria" che prevede l'applicazione del provvedimento ai processi in corso. Voi sapete che la giurisprudenza prevede che quando viene promulgata una nuova legge, specie in materia di giustizia, questa si applica ai nuovi procedimenti che inizieranno quando è entrata in vigore. Non è mai retroattiva. Ecco, in questo caso la famosa "norma transitoria" colma proprio questo "gap", stabilendo non solo che la legge si applica anche ai procedimenti già in corso, ma addirittura specificandone il riferimento temporale e le caratteristiche (processi in corso per i reati con pene sotto i dieci anni, commessi prima del 2 maggio 2006, data dell'ultimo indulto).

E, guarda caso, in questi parametri rientrano proprio i processi che pendono sul premier. Naturalmente Alfano si è prodigato più di una volta a spiegare che il premier non c'entra assolutamente niente e la norma transitoria è nell'interesse di tutti gli italiani. Gli stessi che probabilmente ancora bevono queste panzane.


Aggiornamento 21,50.

L'ANM, dopo l'intervista di Alfano, ha fatto sentire la sua voce spiegando cosa si nasconde in realtà dietro il processo breve. Wil, invece, sul suo blog segnala che dalle parti di Minzolini è già cominciato il lavaggio del cervello degli italiani sull'argomento.

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