domenica 20 settembre 2020

La religione come psicoterapia collettiva

Come ho scritto spesso in queste pagine, per vari motivi, anche di lavoro, ho molti conoscenti che professano una qualche religione (cattolici, protestanti, musulmani ecc.) coi quali mi capita spesso di discutere. Naturalmente sono dialoghi che non portano a niente perché per loro natura non possono portare a niente, dal momento che io discuto secondo una logica di tipo razionale e loro di tipo fideistico. Ma si fa così, giusto per speculare e analizzare i vari punti di vista. E la cosa, tutto sommato, è anche piacevole. 

Ieri, ascoltando la conferenza di Umberto Galimberti che pubblico qui di seguito, ho scoperto una lettura della religione a cui non avevo mai pensato, cioè avevo pensato ma a livello di slogan, senza approfondirla più di tanto, quella cioè della religione vista come psiche collettiva, intesa cioè da un punto di vista sentimentale come lenitivo delle umane sofferenze. 

In sostanza, il filosofo dice: Ma se certe pratiche religiose fanno stare bene, procurano un beneficio all'anima, perché no? Perché si vuole impedire che vengano utilizzate opponendo loro obiezioni di tipo razionale? Già la vita è di per sé difficile, se c'è qualcosa che aiuta a lenirne il peso, perché no? 

In realtà la proposizione di Galimberti non è una novità. Sulla religione intesa come lenitivo avevano già scritto prima di lui filosofi e teologi di ogni epoca. Persino Guccini, una trentina d'anni fa, in Libera nos domine definiva Dio come un'utopia per lenire questa morte sicura.

Per chi fosse interessato, i pochi minuti in cui Galimberti analizza questa argomentazione molto interessante partono da 1:32 circa.


11 commenti:

  1. D'accordo, perchè no? Io mi spingo anche oltre e penso che uno sia libero anche di venerare gli asini che volano, se lo fa stare bene. Però quello che mi dà fastidio di molti credenti - non tutti, per fortuna, e comunque il discorso vale anche per chi crede in una ideologia - è che cercano di imporrre la loro visione al prossimo con tutte le conseguenza del caso. Quindi sì se ti fa stare bene, no se mi vieni a rompere i maroni X°°D

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    1. Concordo pure io, anche se il fatto della petulanza di certi credenti lo considero tutto sommato un male minore. Trovo molto più fastidioso (e anche pericoloso) quando idee dettate da una religione entrano nell'impianto politico e legislativo di un paese.
      Prendiamo le unioni civili, solo per fare l'ultimo esempio in ordine di tempo. La battaglia che hanno fatto i cattolici per impedire l'approvazione della legge in parlamento è stata intensissima (manifestazioni, cortei, ostruzionismi parlamentari ecc.). Ma perché una minoranza (i cattolici praticanti sono nel nostro paese circa il 30% della popolazione) dovrebbe impedire l'approvazione di una legge che riguarda la totalità degli appartenenti a una nazione? Se loro sono contrari alle uonini civili, e sono liberissimi di essere contrari, non vi facciano ricorso e chiusa lì, e lascino a chi cattolico non è la libertà di utilizzare questo statuto se lo ritiene utile per regolare la propria vita.
      L'ingerenza della religione nella politica è molto più fastidiosa e pericolosa della petulanza con cui fanno proselitismo.

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    2. Hai perfettamente ragione!

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  2. Esiste un dio? Nessuno potrà mai saperlo. A livello individuale, l'unica cosa che esiste è il dio che uno crede che esista, fatto proprio così come se lo immagina: buono, cattivo, ecc. In questo senso dio è il frutto della psiche di una persona. Essendo immagine di una totalità, dio può essere anche la proiezione della propria totalità (il Sé di Jung, ad esempio), cioè della propria essenza con la quale l'io (la parte conscia) può dialogare per integrare nella propria coscienza sempre più parti autentiche di sé.
    A livello collettivo concordo con Galimberti e aggiungo che la religione può servire anche a chi non ha fede, che nei momenti di disperazione può almeno sperare, anche se razionalmente non vorrebbe, che un dio buono esista.

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    1. Sull'esistenza di Dio non penso abbia senso discutere, dal momento che neppure i credenti sanno se esiste o no (se lo sapessero non sarebbero più credenti, dal momento che si crede se non si sa, se si sa non si credo più. Io non credo che due più due faccia quattro, so che due più due fa quattro. Viceversa, io non so se Dio esiste, quindi credo che esista, perciò che senso ha discuterne? Forse neppure Socrate lo farebbe :-).
      Per quanto riguarda la disperazione, credo che la religione possa servire eccome, ma non penso che chi non ha una fede la possa trovare in un momento di disperazione. Ma magari mi sbaglio, e spero sinceramente di non avere mai occasione di verificare di persona.

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  3. Io ho un collega che, dopo aver perso la mamma a soli quattordici anni, ha trovato conforto nella religione: adesso è membro attivo della comunità neocatecumenale. Per quanto mi riguarda, dopo il grave trauma dell'incidente stradale, ho seguito un percorso in un certo senso opposto, pur senza diventare proprio atea: quando un prete mi ha detto che doveva esserci un disegno divino dietro quello che mi era capitato, ho sentito qualcosa dentro che si spezzava, e ho smesso di colpo di andare a messa.

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    1. Che dietro ogni evento tragico o doloroso ci sia un disegno divino che a noi non è dato conoscere e/o comprendere è il classico ritornello che ogni prete ripete, e che io stesso, quando da giovinetto andavo a catechismo, sentivo ripetere da don Natale. Ma d'altra parte è l'unica risposta che un prete può dare, visto che le alternative sarebbero eufemisticamente imbarazzanti se non palesemente contraddittorie con tutta l'immagine che di Dio ha dato la chiesa negli ultimi decenni. Detto questo, racconto un episodio.
      Alcuni anni fa, una persona che conosco ha perso un figlio che era molto giovane. Suicidio. La persona non è che fosse una fervente credente ma comunque aveva un certo rapporto con la chiesa. Dopo il tragico evento si è avvicinata ancora di più alla fede, e in questa ha trovato l'appiglio per uscire dalla disperazione lancinante successiva alla tragedia.
      Se una tragedia simile fosse capitata a me, che non sono assolutamente credente, o a qualsiasi altra persona nelle mie condizioni, quale sarebbe stata la reazione? La maledizione di Dio o un avvicinamento a lui? Non so rispondere e, come dicevo a Giorgio, spero di non doverlo mai scoprire.
      Tuttavia è indubbio che, da questo punto di vista, la religione è un appiglio fenomenale a cui aggrapparsi per non cadere nel baratro della disperazione e, forse, per individuare un senso alla tragedia.

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    2. Se mio figlio si suicidasse, prima di pensare al ruolo di Dio in tutto questo, credo che penserei con maggior profondità a quale potrebbe essere stato il mio ruolo, ma è proprio per evitare di fare ciò che si entra in una religione, che diventa una pseudo religione, una specie di terapia che serve a non mettersi in discussione.

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    3. Per non essere frainteso voglio dire che non sto giudicando. Ognuno fa quello che può e si difende come può e va bene così,

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    4. Naturalmente. Era chiarissimo.

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