sabato 12 settembre 2020

Condanne severe e certe?

Faccio fatica a riconoscere il Giuseppe Conte professore e giurista nella frase con cui chiede per i presunti assassini di Willy condanne "certe e severe". Potrei chiudere un occhio sul "certe", dal momento che, specie nel campo della giustizia, di certo c'è sempre poco o niente, ma il concetto di severità non appartiene alle modalità con cui nel nostro sistema penale e civile è stata pensata l'amministrazione della giustizia, dove la pena è intesa con funzione rieducativa, non vendicativa; appartiene semmai di più a quello con cui appunto si mette in atto una vendetta. Vendetta e giustizia sono due concetti antitetici, anche se mi rendo conto che fatti di cronaca come quello in oggetto non facilitano certo un discernimento tra i due concetti, discernimento che è già difficile attuare in condizioni emotive normali, in cui cioè gli stati d'animo non sono così potentemente sollecitati.

Il grado di severità con cui viene inflitta una punizione è ascrivibile alla sensibilità e alla discrezionalità dell'offeso in ambiti che non possono essere quello della giustizia. La mamma punisce il figlio che ha combinato una marachella con un grado di severità che a suo insindacabile giudizio è proporzionato alla gravità di ciò che il figlio ha combinato. Ma la stessa cosa non la può fare un tribunale, perché il compito di un tribunale è quello di comminare pene sulla base di quanto prevede la legge, non l'emotività.

La figura del giudice terzo che dirime le controversie nasce col diritto romano, ed è strada introdotta come norma di civiltà e di giustizia quando si è capito che chi è vittima di un'offesa non può farsi giustizia da sé, perché la carica di emotività generata dall'aver subito un torto, un sopruso, un'ingiustizia ecc. ben difficilmente gli consentirebbe di rispondere in maniera proporzionata al torto ricevuto. Da qui l'istituzione di una figura terza, estranea alla controversia, che in virtù di questa estraneità decide l'entità di una pena o di una punizione nella maniera più proporzionata possibile all'offesa che deve riparare.

Senza questo sistema saremmo ancora alla legge del taglione di biblica memoria o al codice di Hammurabi degli antichi babilonesi, che andavano benissimo in sistemi sociali in cui la giustizia era regolata dal concetto di vendetta, ma che sono totalmente fuori luogo in un sistema civile (almeno formalmente) in cui il concetto di giustizia è basato sulla proporzionalità tra offesa e relativa pena e dove la finalità della pena è (dovrebbe essere) la rieducazione. Diciamo che Conte, oggi, è un po' come se avesse buttato dalla finestra duemila anni di diritto e fosse tornato agli antichi babilonesi.

5 commenti:

cristiana marzocchi ha detto...

Sappiamo tutti che la finalità della pena, basata sulla rieducazione, è fallita ovunque perchè le regole e la promiscuità delle carceri , non la permettono.La maggioranza dei carcerati è recidiva, ma maggioranza dei reati è perpetrata da pregiudicati.
Sì, le pene devono essere severe, scontate senza permessi premio.Dai babilonesi, ne è passata di acqua sotto i ponti, prima fra tutte la cancellazione della pena di morte. Nessuno tocchi Caino, ok, ma se Caino è un barbaro violento, ora inorridirai, ma io non mi sento di proteggerlo.

Cri

Andrea Sacchini ha detto...

Il concetto di pena come rieducazione non è fallito ovunque, è fallito dove non si è fatto nulla per cercare di renderlo attuabile. Il nostro paese è tra questi, purtroppo. I motivi sono sotto gli occhi di tutti e alcuni li hai evidenziati anche tu.
Non inorridisco al tuo ragionamento ma non lo condivido, e per certi versi lo comprendo anche, perché siamo talmente immersi in una cultura della vendetta rispetto a quella della giustizia che è diventato inconscio collettivo pensare che un barbaro criminale vada punito con la stessa dose di barbarie piuttosto che tentate di rieducarlo.
Vogliamo tornare alla legge del taglione? Io no, preferisco restare nella civiltà.

giorgio giorgi ha detto...

Ho cercato sul dizionario e ho trovato questo:

severo
/se·vè·ro/
aggettivo
1.
Alieno da indulgenze o cedimenti nell'esercizio di un'autorità o di un ufficio.
"giudice s."

Se essere severo significa semplicemente non essere indulgente, la frase di Conte potrebbe essere condivisibile, nel senso che un poveretto che ruba due mele per mangiarle può essere trattato con indulgenza nell'ambito di discrezionalità del giudice, uno che uccide brutalmente un uomo può essere trattato senza indulgenza, tuttociò senza mettere in discussione il fatto che la pena debba avere una finalità rieducativa.

Andrea Sacchini ha detto...

Se Conte ha inteso con pena severa una pena senza sconti o indulgenze, allora la frase può essere condivisibile (non vorrei aver dato l'impressione di nutrire una sorta di comprensione o giustificare in qualche modo ciò che ha fatto il quartetto).
Tuttavia, come ho scritto nel post, la frase non mi è piaciuta perché nei toni (attenzione: nei toni, non nella sostanza) l'ho trovata simile ai tanti "deve marcire in galera!" che quotidiamente pronuncia Salvini.
Se io ad esempio fossi stato al posto di Conte, avrei pubblicamente chiesto una pena certa secondo quanto prevede la legge, non certa e severa, mi pare sarebbe stata una richiesta più in linea con lo spessore dell'uomo, il suo ruolo e la professione che esercita.
Tuttavia mi rendo conto che ciò che avrei detto io sarebbe stato, come dire, molto... neutro. Non avrebbe avuto cioè quella valenza "lenitrice" e consolatoria contenuta nella richiesta di una pena severa. Non so se mi sono spiegato, d' altra parte ci muoviamo sul terreno delle delle ipotesi su come vada interpretata la frase in questione.

giorgio giorgi ha detto...

Sono d'accordo con te nella sostanza della questione. La mia è stata piu' che altro una curiosità di approfondire il significato della parola ma sono d'accordo con ciò che hai scritto.

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