giovedì 24 ottobre 2019

Eseguivano gli ordini



Il tenente colonnello delle Ss Rudolfh Höss, primo dei tre comandanti del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, interrogato dall'avvocato Kurt Kauffmann, difensore del capo della Gestapo Ernst Kaltenbrunner, ammette che sotto la sua direzione, durata circa tre anni, sono state uccise ad Auschwitz "Due milioni e mezzo di persone con il gas, un altro mezzo milione è morto invece di fame, stenti e contagi di varia natura."

A questo punto Kaufmann gli rivolge una domanda di per sé non inerente alla procedura processuale in corso: "Pensando alla sua famiglia e ai suoi figli, non ha provato neppure un briciolo di compassione?" Höss annuisce leggermente. Poi risponde: "Contavano solo gli ordini che Himmler mi aveva spiegato e impartito, non contavano i miei dubbi."

Leggendo questo passaggio di questo ottimo libro sul processo di Norimberga, che ho terminato poco fa, mi è venuto in mente un episodio simile raccontato nel libro In quelle tenebre, della giornalista inglese Gitta Sereny. Nel suddetto libro, che mi pare di aver letto l'anno scorso, l'autrice riporta le interviste rivolte a Franz Stangl, comandante del campo di sterminio di Treblinka, nel carcere di Dusseldorf dove era detenuto. Per circa settanta volte la giornalista chiede a Stangl se provasse qualcosa nel fare quello che faceva, e per settanta volte l'ex ufficiale tedesco non risponde, glissa, facendo pensare alla Sereny che il suo silenzio fosse provocato dalla vergogna.

Alla fine, però, la giornalista intuisce il motivo del silenzio: Stangl non si vergogna, semplicemente non capisce il senso della domanda. Nell'ultima intervista, infatti, un po' seccato, lo ammette: "Cosa significa 'Cosa provavo'? Io non dovevo provare niente, la mia mansione era quella di sopprimere nel più breve tempo e nel modo più efficiente possibile ogni carico di ebrei che arrivava coi treni, e io svolgevo il mio compito alla perfezione."

Ubbidivamo agli ordini, quindi non possiamo essere considerati criminali, è il ritornello che ogni gerarca nazista processato e condannato a Norimberga ha opposto come giustificazione di ciò che ha fatto. Ognuno di loro non era nient'altro che "un mattone nel muro", come avrebbero cantato molto tempo dopo i Pink Floyd.

E come si può condannare un mattone?

4 commenti:

  1. Varie volte Umberto Galimberti ha citato la risposta di Franz Stangl, traslando all'epoca attuale della tecnica e della prestazione quella modalità del "fare" in risposta alle richieste dell'"apparato".

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  2. Verissimo. Ricordo una sua conferenza a cui assistetti, l'anno scorso, in cui accennò a questa cosa. È stato per quello che ho letto il libro della Sereny.

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  3. Avevan annullato la loro stessa personalità. Io ci credo.
    Alcuni sicuramente erano lucidi e crudeli, altri invece si erano autoridotti ad automi in nome del nazismo.

    Moz-

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  4. Sì, è probabile. Ciò che più sconcerta, e che ancora risulta di difficile comprensione anche a molti storici odierni, è che tutti sapevano cosa stavano facendo i nazisti. Lo sapevano i tedeschi, gli inglesi, i francesi, gli americani, il Vaticano, eppure nessuno è riuscito a impedirlo, o quanto meno a limitarlo. È come se una specie di obnubilamento collettivo avesse avvolto tutto e tutti.

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