domenica 7 settembre 2025

Fine pena: ora



Questo libro, che racconta una storia vera, parla del rapporto epistolare durato 26 anni tra un ergastolano e il giudice che gli ha comminato la pena. 

Nel 1985, a Torino, si svolge un maxi-processo contro la mafia catanese. Tra i condannati all’ergastolo c'è Salvatore, ventottenne, con il quale il presidente della Corte d’Assise, l'autore del libro, instaura un rapporto basato sul reciproco rispetto e una sorta di fiducia. 

Tutto nasce il giorno dopo la sentenza, quando il giudice, d'impulso, invia una lettera in carcere a Salvatore con allegato un libro. Gliela invia ripensando ai due anni di processo che hanno condotto alla sentenza. In particolare, una frase di Salvatore non è più riuscito a dimenticare: "Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia."

Da lì nasce appunto una fitta corrispondenza tra i due fatta di migliaia di lettere che si protrarrà per più di cinque lustri. Salvatore racconta al suo giudice la vita in carcere, le gioie e le frustrazioni derivanti dal suo impegno per tentare di redimersi attraverso le attività previste dalle varie strutture penitenziarie in cui viene di volta in volta trasferito: teatro, lavoro, corsi professionali, studi. Il giudice risponde puntualmente commentando i progressi di Salvatore e proponendogli le sue riflessioni.

È un testo amaro, dolorante, che riflette e fa riflettere sul rapporto tra chi infligge una punizione e chi la subisce, sul senso della pena e della giustizia. Il tutto partendo dal presupposto che la persona che commette un crimine, col passare del tempo non è più la stessa persona e che "il carcere è pena per gesti che non andavano compiuti: ma la persona non è mai tutta in un gesto che compie, buono o cattivo che sia."

La parte finale del libro, esaurita la vicenda in sé, contiene le interessantissime riflessioni del giudice sull'opportunità di continuare a mantenere l'istituto dell'ergastolo. È un testo che fa riflettere sulla complessità di un problema come quello della giustizia, della pena, della sofferenza. Perché il carcere non è solo un luogo in cui rinchiudere i delinquenti per poi buttare via la chiave, come frettolosamente e stupidamente strillano certi sciacalli travestiti da politici, ma è anche un luogo di sofferenza, di cambiamento, di emancipazione umana. È l'emblema di una realtà estremamente complessa, e come tale andrebbe trattata.

7 commenti:

  1. Interessante, ma quest'intesa risponde a una simpatia iniziale? come a dire che "sei un ragazzo che non dovresti stare in questa situazione ma la legge è uguale per tutti".

    podi-.

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    1. Da quello che si capisce dal libro, il giudice percepisce la gravità della condanna per un giovane così e ne rimane colpito. Da lì la decisione impulsiva di scrivergli, pur consapevole dell'inusualità del suo gesto.

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  2. A Radio3 hanno parlato di questo libro varie volte e in diversi contesti, ricordo in particolare un'interessante intervista al suo autore; fatto sta che alla fine ho avuto l'impressione di conoscerne così bene il contenuto, il significato e il valore che in un certo senso non ho sentito davvero il bisogno di leggerlo. Se non ricordo male mi pare ci fosse stato da parte del detenuto anche un tentativo di suicidio, ad ogni modo quel "Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia" dice già tutto.
    Comunque: ce ne fossero, di giudici (e di libri) così!
    Nota a margine: il tuo "certi sciacalli travestiti da politici" è perfetto.

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    1. Sì, alla fine, esasperato e psicologicamente distrutto da tutto quello che gli è successo durante la lunghissima prigionia, Salvatore tenta il gesto estremo e purtroppo riesce a portarlo a termine.

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    2. Evidentemente avevo rimosso la riuscita del tentativo, ahimé... un esito finale della vicenda così triste da risultare insopportabile.

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  3. Non è il mio genere ma sembra molto interessante.

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    1. L'argomento è interessantissimo e, purtroppo, di estrema attualità qua in Italia.

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