Il Corriere della Sera pubblica oggi un interessante articolo, consultabile (per adesso) qui, nel quale viene riportato uno studio dell'Istituto di Criminologia Australiano. Seppure questo studio sia ancora soltanto una bozza, sono trapelati da esso alcuni particolari molto interessanti.
Uno di questi riguarda il fatto che le industrie discografiche non dicono quali metodi usano per verificare l'entità delle (a loro dire) astronomiche perdite pecuniarie dovute alla pirateria online. Il Corriere, nell'articolo che ho linkato sopra, cita l'esempio proprio della Bsaa (Australian Business Software Association), che nel 2005 avrebbe lamentato perdite per 361 milioni di dollari. Bene, secondo questo studio tali dati sarebbero non dimostrabili, oltre che inaffidabili. Non poggerebbero insomma su nessuna statistica attendibile.
Non so chi abbia ragione (l'ultimo rapporto [2004] per quanto riguarda il nostro paese stima le perdite dovute alla pirateria online in 6 miliardi di euro), ma sono convinto che la stragrande maggioranza degli utenti, qualora non avesse la possibiltà di scaricarsi un cd musicale illegalmente dai circuiti peer-to-peer, non lo acquisterebbe comunque in un negozio.
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