lunedì 29 luglio 2019

Non hanno capito la gravità

[...] Concreto è il pericolo di reiterazione di reati analoghi desumibile dalle modalità e circostanze del fatto e in particolare dalla disponibilità di armi di elevata potenzialità offensiva, dalla concatenazione dei crimini perpetrati in brevissimo lasso di tempo nella totale inconsapevolezza da parte degli indagati, del disvalore delle proprie azioni, come apparso evidente anche nel corso degli interrogatori durante i quali nessuno dei due ha dimostrato di aver compreso la gravità delle conseguenze delle proprie condotte. [...]

Il passaggio che ho evidenziato in neretto, estratto dalle motivazioni con cui il giudice ha disposto la custodia cautelare in carcere dei due giovani accusati dell'omicidio del carabiniere a Roma, mi ha fatto venire in mente quanto scrisse Umberto Galimberti in uno suo libro di alcuni anni fa che credo si chiami I miti del nostro tempo. O forse è La parola ai giovani? Non ricordo, dovrei andare a controllare.

Comunque sia, in un passaggio di uno dei libri, Galimberti racconta che si studiò per motivi di lavoro le carte processuali del caso di Erika e Omar, i due giovani fidanzati che anni fa (chi ha la mia età se lo ricorda molto bene), a Novi Ligure, uccisero la mamma e il fratellino di lei. Il dramma vero, scrive Galimberti, non stava nell'omicidio in sé, o almeno non solo in quello, ma nel fatto che dopo averlo commesso i due giovani si recarono, come ogni giorno, nel solito bar a bere la solita birra. Per loro, cioè, quel giorno fu un giorno come tutti gli altri, non era successo niente di diverso.

Il secondo caso di cui si occupò, invece, narrato sempre nel libro, fu quello dei Furlan, i tre fratelli che nel tortonese gettavano sassi dai cavalcavia sopra l'autostrada e provocarono in questo modo la morte di Maria Letizia Berdini. Galimberti andò a parlare con loro in carcere, dopo che furono arrestati, e quando chiese loro perché lo facessero gli risposero che per loro era come giocare a bingo. Al che lui replicò chiedendo se erano consapevoli che nelle macchine che passavano sotto i cavalcavia c'erano delle persone. Uno dei fratelli rispose: "Cosa vuoi che sia..."

Nel libro l'autore spiega che questa incapacità di comprendere la gravità delle proprie azioni, la stessa evidenziata ieri dal giudice nel caso dei due ragazzi americani, si chiama mancanza di risonanza emotiva, o psicoapatia (non sono uno psichiatra, prendete questa cosa con le pinze), cioè la psiche non registra e non reagisce a livello emotivo a ciò che si commette, una disfunzione psichica che si genera nei primi anni di età in conseguenza dello stato di abbandono, non tanto fisico quanto affettivo, e di trascuratezza dei bambini da parte dei genitori.

Qui ci sarebbe da aprire tutto un discorso critico sulle impostazioni economiche e sociali su cui è imperniata la società attuale, la quale prevede ad esempio che la maggior parte delle famiglie possano tirare avanti solo col lavoro di entrambi i genitori, con tutto quello che ne consegue a livello di possibilità di seguire i figli come si dovrebbe, ma il discorso si farebbe lungo e articolato.

2 commenti:

  1. Più che di abbandono io parlerei di mancata educazione alla relazione con gli altri, alla relatività delle proprie convinzioni.
    Non è necessario essere lasciati soli per sviluppare questa orrenda deriva psichica da te descritta, bastano anche dei genitori presenti che ti convincano in ogni modo di essere al centro del mondo, di essere sempre nel giusto, di essere il migliore e l'inarrivabile.
    Ce n'è tanta di gente così, cresciuta male ed invecchiata peggio, che non si rassegna ad essere ragionevolmente uno/a tra tanti.

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  2. Sì, e alla fine il risultato è comunque il medesimo, certificato anche dagli operatori carcerari che li hanno in custodia, che li descrivono come indifferenti a tutto. Incredibile.

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