domenica 8 settembre 2019

La fine di Moby Dick

Terminato pochi minuti fa, dopo quasi due settimane, il maestoso Moby Dick di Herman Melville, nell'edizione pubblicata nel 2016 da Giulio Einaudi e tradotta da Ottavio Fortuna. Mi ci sono volute quasi due settimane in primo luogo perché è un tomo di settecento pagine, e poi perché, come ho già scritto altre volte, nella vita sono obbligato a fare altre cose oltre a leggere libri, come ad esempio lavorare, tanto per dirne una. Qualche curiosità.

Il libro è stato pubblicato originariamente nel 1851 in due edizioni, una americana e una inglese, quest'ultima emendata di molte parti considerate eufemisticamente irriverenti nei confronti della Corona. Oggi è considerato un capolavoro della letteratura universale ma nel periodo in cui Melville visse fu sostanzialmente ignorato. Alla sua morte, nel 1891, le copie vendute furono appena tremila.

L'Italia è il paese che l'ha tradotto di più, essendone in circolazione circa una ventina di traduzioni; la Francia, ad esempio, ne ha appena due. Quella più nota e letta, qui in Italia, è quella che Cesare Pavese pubblicò nel 1932 all'età di appena 23 anni, a cui farà seguito un'altra, riveduta e corretta, nel 1941. È opinione diffusa tra i critici letterari che Pavese abbia però piuttosto "maltrattato" l'originale, specie nella sua prima versione, con una traduzione in alcuni punti perlomeno approssimativa.

Secondo questa classifica, il cui valore va preso con le pinze, il capolavoro di Melville è uno dei dieci libri più abbandonati. A me è piaciuto. È innegabile che a tratti assuma più le sembianze di un saggio sulla marineria e la baleneria, piuttosto che un romanzo, ed è sicuramente vero che decine di pagine impiegate ad esempio per descrivere lance, arpioni, navi baleniere, specie di cetacei ecc. possono risultare pesanti (e a tratti lo sono), ma, superate le prime 150 pagine circa, e cioè più o meno quando il Pequod comandato dall'arcigno e granitico capitano Achab prende il largo, beh, da lì in poi il romanzo conquista e trasporta il lettore con sé senza possibilità di scampo.

O almeno, questo è ciò che è successo a me.

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