sabato 2 luglio 2022

Una persona alla volta


Ciò che maggiormente mi ha colpito di questo libro è la testarda e utopica idea di Gino Strada che le cure debbano essere un diritto gratuito garantito a tutti. Gratuito e di qualità. Anche la nostra Costituzione le prevede come tali, sulla carta. Questa idea che le cure debbano essere di qualità e gratuite, perché i diritti non si pagano, è un po' il filo conduttore che tiene insieme il libro. Un libro amaro, che fa riflettere, irritare, a volte fa venire voglia di chiuderlo e gettarlo in terra.

Gino Strada si forma come chirurgo al policlinico di Milano negli anni Sessanta. Poi va per un periodo negli Stati Uniti per perfezionarsi nel campo dei trapianti di cuore e di polmoni. Rimane là per un certo periodo, imparando tantissimo. Gli viene offerto di restare là; hanno capito la sua bravura e le sue capacità e gli offrono un contratto che lo sistemerebbe per la vita. Lui si prende qualche giorno per pensarci. Sono giorni travagliati, l'offerta è delle più allettanti possibili, ma c'è una spina, un dubbio, un tarlo, qualcosa di non ben definito che lo rode. Alla fine rinuncia. "Non posso fare il chirurgo in un paese dove prima di curare qualcuno gli chiedono la carta di credito", dirà poi per giustificare la decisione di non accettare.

E Gino Strada se ne va. Torna in Italia, a Milano. Qui entra in contatto con la Croce Rossa Internazionale (Emergency verrà fondata qualche anno dopo) e non ci pensa un attimo: aderisce a questa organizzazione e parte come chirurgo di guerra, accettando di andare in tutti i posti più disperati del mondo in cui ci sia bisogno: Pakistan, Etiopia, Thailandia, Afghanistan, Perù, Somalia, Bosnia, Ruanda. Questo libro è la testimonianza di quelle esperienze, i cui racconti aiutano a farsi un'idea di come sia il mondo appena fuori del nostro bel giardinetto fiorito. Io credo che noi non abbiamo una idea precisa di come è fatto l'80 per cento del mondo che è là fuori. Si, forse in maniera astratta, un po' vaga, retaggio di ciò che ogni tanto passa tra le previsioni del tempo e l'oroscopo, ma non una idea a livello di coscienza. Libri come questo aiutano a farsela.

Tra i racconti più dolorosi c'è quello relativo alle mine antiuomo, di cui il nostro paese è stato uno dei maggiori produttori al mondo. Strada racconta che ci sono persone che studiano e si ingegnano per cercare di realizzarne di sempre più efficaci. Alcune di queste, molto usate in passato nel conflitto russo-afghano, sono studiate per colpire i bambini, e vengono realizzate con colori e forme particolari, in modo che sembrino giocattoli, e rese accattivanti proprio perché i bambini che le trovano nei campi le raccolgano e le manipolino. Ordigni studiati non per uccidere ma per mutilare. Progettate perché i bambini che le raccolgono non muoiano quando esplono, ma perdano le mani, le braccia, gli occhi. Ecco, noi esseri umani siamo capaci di fare anche queste cose.

Agli inizi degli anni Novanta, quando Gino Strada cominciò ad acquisire una certa celebrità per ciò che faceva in giro per il mondo, fu invitato da Maurizio Costanzo in televisione per parlare della sua attività. Strada, per sua natura da sempre refrattario alla esposizione mediatica, accettò, ponendo però alcune condizioni: dire in televisione che l'Italia è uno dei maggiori produttori al mondo di mine antiuomo e fare i nomi delle aziende produttrici. Costanzo ci pensò, poi disse di sì. Dopo quella trasmissione, che fece enorme scalpore, il governo approvò una moratoria contro la produzione di mine antiuomo. Oggi quella moratoria sulla carta esiste ancora ma, a distanza di tanti anni, non è stata ancora convertita in legge.

Mentre leggevo queste cose mi veniva da fare qualche riflessione sulla cosiddetta etica del lavoro. Noi, nel nostro immaginario collettivo e nella nostra cultura, abbiamo sempre nobilitato il lavoro, abbiamo conferito ad esso un valore morale di un certo rilievo, mentre forse dovremmo fare qualche distinguo. Il lavoro non è sempre morale. Dov'è la moralità nel lavoro di un'azienda che produce mine antiuomo? Questa domanda me la pongo spessissimo anche io mentre svolgo il mio. Mi passano per le mani ogni giorno tonnellate e tonnellate di carta trasformate in giornali, che vengono comprati da persone per leggere che Albano un giorno sta con la Lecciso e il giorno dopo torna con Romina, giornali che dopo un'ora vengono gettati nella spazzatura. E quei giornali sono alberi, foreste che vengono distrutte con tutte le conseguenze che sappiamo. Dov'è la moralità del mio lavoro, qui? Ovvio che non si può fare un classifica di gravità con un bravo operaio che costruisce una perfetta mina antiuomo, ma ognuno di questi mestieri ha una sua immoralità. E allora, forse, è ora di smetterla con questa romantica e stucchevole retorica sulla moralità del lavoro e guardare un po' in faccia le cose come sono.

Un altro capitolo che fa male è quello in cui Strada racconta come negli ultimi decenni sia stata smantellata la sanità pubblica in favore di quella privata, con le conseguenze che noi tutti oggi proviamo sulla nostra pelle. Scrive Strada: "Cosa è successo? Perché si è arrivati fin qui? Ci dev'essere stato un cambiamento culturale. Per molti secoli, in tutte le culture la medicina si è sviluppata per curare gli ammalati, o i feriti, per salvare vite umane o alleviarne le sofferenze. A un certo punto, inspiegabilmente, ha cominciato a cambiare. Forse il cambiamento è nato da una constatazione banale: che tutti noi prima o poi nel corso della vita abbiamo bisogno di un medico. Sarebbe stato naturale, sensato, concludere che, proprio perché rispondono a un bisogno comune, le cure mediche debbano essere di alta qualità, pubbliche - cioè di tutti -, e per questo gratuite per tutti. Invece qualcuno è arrivato a una conclusione diversa: se è certo che ognuno di noi prima o poi avrà bisogno di medico, allora ognuno di noi è potenzialmente cliente di un mercato, quella della salute, enorme. Potremmo dire illimitato, dal momento che essere curati è un bisogno di tutti, e non un lusso a cui si può sempre rinunciare."

Come tutti i libri che raccontano e scavano nel mondo in cui viviamo, è un libro che fa male. Mi viene spesso il dubbio che forse sapere come stanno le cose, capirle, non sia un buon affare, che in fondo in fondo sia meglio non sapere e avere l'illusione di vivere in un mondo dove tutto funziona bene. Magari ci si sta meno male. In fondo, occhio non vede e cuore non duole, no?

7 commenti:

  1. Credo che chi ha un minimo di coscienza passi la vita a chiedersi se può fare di più per gli altri, perché ci sarebbe tanto da fare, sempre e comunque. Il dolore per le ingiustizie, gli orrori che accadono ogni minuto nel mondo credo sia sempre presente in noi. Dall'altra parte dobbiamo pur vivere, avere qualche momento libero da pensieri da dedicarci. Ma subito riparte la domanda: è troppo, è poco, potrei fare di più per gli altri? La risposta credo che sia sempre provvisoria e personale. Credo che si passi la vita a chiedersi se e come si potrebbe fare di più. È una equazione individuale. E' un problema che accompagna la nostra vita.

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  2. Concordo. Ma duole constatare che quella coscienza che menzioni sia per gran parte andata perduta. O almeno io ho questa impressione.

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  3. Amara ma purtroppo vera la tua conclusione. E poi c'è molta gente che il problema proprio non se lo pone.

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    1. Forse, da un certo punto di vista, è anche normale che sia così. D'altra parte la nostra psiche è strutturata per relazionarsi con ciò che avviene nelle sue immediate vicinanze, il troppo grande che c'è là fuori le è indifferente.

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  4. Ho sempre ammirato Gino Strada, crrti che fa male leggere... eh?

    ;-)

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