Scrive l'autore: "Le forme di vita inferiori, persino quelle complesse come le piante, non percepiscono la morte. Semplicemente, capita. Gli animali e gli altri esseri senzienti possono anche temere istintivamente il pericolo e la morte. Essi riconoscono quando uno di loro è morto, ed è noto che alcuni piangono il defunto. Ma non c'è alcuna prova che gli animali siano consapevoli della propria mortalità. Non mi riferisco al fatto di essere uccisi da un atto di violenza, da un incidente o da una malattia evitabile. Parlo della ineluttabilità della morte."
Secondo il filosofo Stephen Cave, la ricerca dell'immortalità e il rifiuto della mortalità sono passate attraverso quattro strategie elaborate dalla civilizzazione umana:
1) cercare di vivere il più a lungo possibile, se non addirittura per sempre.
2) rinascere fisicamente dopo la morte.
3) anche se il nostro corpo si decompone e non può essere resuscitato, la nostra essenza continua a esistere come anima immortale.
4) la prosecuzione della vita, in caso di fallimento delle altre strategie, avviene attraverso la nostra eredità, sia essa artistica (le opere che lasciamo) o biologica (la nostra discendenza).
La strategia che finora è andata per la maggiore è la numero 1, ma le culture umane si differenziano tra loro anche in base alla misura in cui hanno ripiegato sulle altre. Le religioni, ad esempio, hanno attinto a piene mani dalle ultime tre.
Ah, ho iniziato a leggere Perché moriamo, un interessantissimo saggio scientifico che tratta da un punto di vista etico, storico, sociale, morale, biologico la questione che tutti noi, da sempre, cerchiamo di rimuovere: la morte e la consapevolezza della nostra caducità. Prima di finirlo conto anche di riuscire a memorizzare il nome dell'autore :-)
Curioso come si continui a vendere l’idea che l’uomo sia l’unico animale capace di concepire la propria fine. La chiamano “unicità”, io la chiamo arroganza mascherata da filosofia. Basta guardare appena fuori dal nostro specchio antropocentrico per accorgersi che la realtà è ben diversa. Gli elefanti non si limitano a notare un corpo senza vita: tornano sui luoghi dove un loro simile è morto, accarezzano con la proboscide le ossa, restano in silenzio. Se non è consapevolezza della morte, è quantomeno qualcosa che ci somiglia maledettamente. I corvi, a loro volta, organizzano vere e proprie “funzioni funebri”: si radunano intorno al corpo di un compagno caduto e rimangono per ore, come se stessero elaborando un lutto collettivo. E ancora: i delfini sono stati osservati nel Mediterraneo mentre sostenevano con il muso i corpi senza vita dei propri piccoli, tentando di tenerli a galla, incapaci di lasciarli andare. Questi comportamenti non sono semplici “riflessi biologici”: richiedono memoria, emozione, e un briciolo di coscienza della perdita. Ma a noi piace pensare che la morte sia esclusivamente “nostra”, perché ci rassicura mantenere quel piedistallo traballante chiamato “superiorità”. Forse, più che un “premio Nobel”, servirebbe ogni tanto un premio all’umiltà scientifica: riconoscere che il confine tra “noi” e “loro” è molto meno netto di quanto ci raccontiamo.
RispondiEliminaSe avessi letto e capito quanto dice l'autore, non diresti che si continua a "vendere l’idea che l’uomo sia l’unico animale capace di concepire la propria fine". L'autore si limita a ribadire che, allo stato attuale, alla luce di quanto dicono le neuroscienze, l'etologia e la filosofia della mente, non ci sono prove che gli animali abbiano consapevolezza dell'ineluttabilità della morte, sia propria che in generale. E qui non c'è alcuna velleità di antropocentrismo. O almeno non ce l'ha l'autore del libro, che ovviamente tu non hai letto. Questo non significa che gli animali non abbiano questa consapevolezza, magari ce l'hanno anche loro; significa solo che al momento non ci sono prove a supporto. A meno che tu non sia in grado di fornirle.
EliminaQuando tu riporti gli esempi degli elefanti e dei delfini che piangono per la morte dei loro simili, non fai altro che ribadire ciò che io ho scritto nel post. Ma il fatto che questi animali facciano ciò che fanno non significa che loro stessi abbiano coscienza dell'ineluttabilità della morte, significa solo che hanno coscienza che a causa di un predatore o per altro motivo, in un determinato momento possono morire, e questo è il motivo per cui ad esempio quando sono attaccati da un predatore si danno alla fuga. Ma un conto è la consapevolezza di poter morire in quel momento a causa di un predatore, altro conto è avere coscienza dell'ineluttabilità della morte. È di quest'ultima che non esistono prove. Capisci la differenza? Quindi, prima di sparare pipponi retorici sull'antropocentrismo, prova a capire ciò che leggi.
Io leggo:
RispondiElimina"Scrive l'autore: "Le forme di vita inferiori, persino quelle complesse come le piante, non percepiscono la morte. Semplicemente, capita. Gli animali e gli altri esseri senzienti possono anche temere istintivamente il pericolo e la morte. Essi riconoscono quando uno di loro è morto, ed è noto che alcuni piangono il defunto. Ma non c'è alcuna prova che gli animali siano consapevoli della propria mortalità."
Della PROPRIA mortalità.
Noi umani, che ancora non riusciamo a mettere a fuoco nemmeno un quadro completo della nostra stessa mente e che, dagli studi neurologici più aggiornati, siamo all’anno zero sulla comprensione di come funziona il nostro cervello, pretendiamo di trovare “prove scientifiche” della percezione della morte negli animali. Come se la nostra ignoranza totale sull’oggetto più complesso dell’universo ci autorizzasse a giudicare la coscienza degli altri esseri senzienti. Ironico, vero?
RispondiEliminaIo sull'argomento non sono in grado di dire qualcosa di fondato, mentre chi vi si dedica scientificamente immagino lo sia, senza bisogno di venire schernito per questo.
RispondiEliminaNon si tratta di schernire nessuno, ci mancherebbe. Il punto è un altro: la nostra conoscenza sul cervello umano è ancora così limitata che parlare di “prove certe” sulla percezione della morte negli animali rischia di essere più un atto di presunzione che di scienza. Non è una colpa, è semplicemente lo stato delle cose: anche chi si dedica professionalmente al tema spesso ammette di navigare in un mare di ipotesi. Il vero rischio non è essere messi in discussione, ma trasformare l’ignoranza in certezze granitiche.
RispondiEliminaA quanto mi risulta sulla comprensione di come funziona il nostro cervello siamo già parecchio lontani all'anno zero, comunque credo che gli scienziati siano più che legittimati a pronunciarsi. Anche perchè, proprio in quanto scienziati, alla luce di nuove evidenze sono pronti in ogni momento a rivedere, integrare o modificare quanto appurato precedentemente.
RispondiEliminaCerto, gli scienziati sono legittimati a pronunciarsi, il problema è quando questa legittimità diventa arroganza. Fino agli anni ’80 si diceva che i neonati non provassero dolore perché “non c’erano prove”: risultato, milioni di bambini operati a cuore aperto senza anestesia. Oggi ci indigniamo, ma all’epoca era scienza ufficiale. Stessa cosa per gli animali: fino a pochi decenni fa si consideravano solo “macchine biologiche”, incapaci di provare emozioni. Poi sono arrivati gli studi sui corvi che usano strumenti, sugli elefanti che vegliano i morti, sui primati che mostrano empatia, perfino sui polpi che imparano e ricordano. Ogni volta la scienza ha dovuto ammettere che i suoi “no” erano solo limiti di metodo, non verità. Per questo trovo rischioso liquidare la questione con un “non ci sono prove”: troppe volte abbiamo scambiato un buco della conoscenza per un’evidenza scientifica.
EliminaMilioni di bambini operati a cuore aperto senza anestesia..?! La vedo dura, immaginando come sia facile operare a cuore aperto un bambino che urla, scalcia e si dimena.
EliminaPerdon...più che miilioni, migliaia in diversi decenni.
EliminaInteressantissimo, devo assolutamente recuperare questo libro.
RispondiEliminaPierre
Io l'ho trovato in biblioteca, ma essendo uscito l'anno scorso, dovrebbe essere facile trovarlo in qualsiasi libreria.
EliminaFinora è un saggio bellissimo.
Buona sera Andrea, ci tengo a chiarire subito un punto: il commento che ho scritto non era né un’affermazione personale né un tentativo di esprimere superiorità umana. Ho semplicemente riportato quanto dice l’autore del libro, cioè che allo stato attuale delle neuroscienze, dell’etologia e della filosofia della mente non ci sono prove che gli animali abbiano consapevolezza della propria mortalità, né della propria né in generale. Non si tratta di antropocentrismo, né di “superiorità” dell’uomo: è un dato scientifico, basato sulle evidenze disponibili. Tutto il resto, gli elefanti che accarezzano le ossa dei loro simili, i delfini che sostengono i piccoli morti, conferma ciò che ho scritto: questi animali hanno coscienza di un pericolo immediato, della morte in quel momento, ma non esistono prove che abbiano consapevolezza dell’ineluttabilità della morte come la intendiamo noi. Il mio intento non era certo fare retorica sull’antropocentrismo, né contestare le osservazioni sul comportamento degli animali, ma solo riportare in modo fedele le conclusioni scientifiche dell’autore. Spero chiarisca il malinteso. qui. Se così non fosse stato chiaro, d’ora in poi mi limiterò a lasciare solo note positive.
RispondiEliminaFrancamente, Andrea, non riesco ancora a capire se i tuoi commenti sono provocazioni volute oppure no. Nel tuo primo commento, quello subito sotto il post, hai scritto:
EliminaCurioso come si continui a vendere l’idea che l’uomo sia l’unico animale capace di concepire la propria fine. La chiamano “unicità”, io la chiamo arroganza mascherata da filosofia. Basta guardare appena fuori dal nostro specchio antropocentrico per accorgersi che la realtà è ben diversa.
Tu, qui, hai tirato in ballo l'antropocentrismo. Ma nel commento qui sopra hai scritto:
Non si tratta di antropocentrismo, né di “superiorità” dell’uomo.
Non ho ancora capito se i tuoi commenti sono provocazioni, se sei un troll o cos'altro.
In nessuna parte del libro l'autore sostiene con sicumera che l'uomo appartiene all'unica specie in grado di provare consapevolezza della propria mortalità. L'autore si limita a dire che, al momento, nessuno studio scientifico è in grado di dimostrare che alcuni animali provano consapevolezza della loro mortalità. Tutto qua. Magari un giorno questa cosa si riuscirà a provare, ma finché non ci si riuscirà, l'essere umano sarà l'unica specie a possedere questa consapevolezza. Non è un concetto difficile da comprendere, e non c'entra né l'antropocentrismo né "l'arroganza mascherata da filosofia", come dici tu. Spero ti sia chiaro il punto della questione, perché meglio di così non riesco a spiegartelo.
Scusa Andrea, ma la tua frittata era già poco invitante prima, adesso che l'hai girata è diventata immangiabile.
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
EliminaSe la pensi così, pace. Non è obbligatorio essere d’accordo. Quanto alla frittata, tranquilla: non la servo a nessuno.
EliminaDirei che qui ce l'hai appioppata in lungo e in largo...
EliminaTi auguro una buona serata.
Non so siu, una mia male interpretazione e dovrei rileggere il tutto. Buona serata anche a te...
EliminaDifficile capire che non ci sia più qualcuno che aveva emozioni, desideri, paure e gioie.
RispondiEliminapodi-.
Più che difficile: spesso è praticamente impossibile.
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