Gli inattivi sono una categoria nata piuttosto recentemente, credo, e compaiono regolarmente in ogni rilevazione Istat sull'occupazione. Si tratta di quelle persone che oltre a non avere un'occupazione perché non la trovano, non la cercano neppure più, un po' per stanchezza, un po' per rassegnazione, per sfiducia ecc. Tutte le volte che sento nominare gli inattivi penso a come è cambiato il mondo (lavorativo ma non solo) negli ultimi cinque o sei lustri, e non solo riguardo agli inattivi o ai disoccupati in genere, ma anche alle dinamiche di ingresso nel mondo del lavoro, almeno raffrontate alla mia esperienza di lavoratore ormai trentennale. Nell'azienda in cui lavoro, e di cui sono alle dipendenze da ben ventisette anni, entrai per caso come lavoratore stagionale non appena terminato il servizio militare. Feci lì la mia stagione estiva e, verso settembre, mi fu chiesto (ripeto: mi fu chiesto) se avessi intenzione di restare con loro a tempo indeterminato. Accettai, anche perché all'epoca non avevo nient'altro da fare. Me ne sarei poi andato - pensavo - quando avessi trovato qualcos'altro, magari di meglio. Poi si sa come vanno queste cose: uno in un posto ci sta tutto sommato bene, si sa cosa si lascia ma non cosa si trova, insomma alla fine sono passati ventisette anni e sono ancora lì. E non è che all'epoca in cui iniziai fosse difficile trovare lavoro. Con un minimo di capacità di adattamento bastava bussare in qualsiasi posto e difficilmente si trovava una porta chiusa.
Poi penso a oggi: gli eterni pellegrinaggi di porta in porta, i voucher, gli inattivi, i precari, i contratti a chiamata, i contratti a quindici giorni, un mese, un anno quando va bene, senza diritto alle ferie, alle indennità di malattia, a niente, e a tutti quelli che non ottengono neppure questa roba qua. Penso alle mie figlie, che mentre studiano all'università cercano qualsiasi cosa da fare per riuscire a garantirsi quel minimo di indipendenza economica che rappresenta un input notevolissimo al conseguimento di una completa stima di se stessi, e al tempo stesso un embrione della soddisfazione personale tipica di ogni autoaffermazione. Quando racconto a loro come entrai io nel mondo del lavoro mi guardano un po' così, come se stessi raccontando una favola. E forse allora era davvero una favola.
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