Uno dei capitoli più sorprendenti del saggio Dove comincia l'uomo, di Telmo Pievani e Giuseppe Remuzzi, che ho cominciato a leggere ieri sera, riguarda lo sviluppo del cervello umano e i meccanismi che hanno favorito le capacità cognitive di Homo Sapiens rispetto a tutte le altre specie animali, compresi i nostri parenti più prossimi: gli scimpanzé. Noi abbiamo sviluppato funzioni cognitive (linguaggio, immaginazione, capacità simboliche, capacità di narrare storie) sconosciute a tutti gli altri, ma paghiamo questi vantaggi cognitivi con un decadimento molto veloce delle facoltà intellettive. Scrivono gli autori:
C’è, col tempo, un decadimento delle funzioni intellettuali; il cervello di noi uomini è una macchina più sofisticata di quella degli scimpanzé, dei bonobo, dei primati non umani. Questo lo capiscono tutti, ma abbiamo capito solo recentemente che per avere un cervello migliore in termini di consapevolezza, capacità di pianificare, immaginare il futuro, fare dell’ironia e mille altre cose che rendono la nostra specie unica, c’è un prezzo da pagare. Noi uomini siamo più suscettibili degli scimpanzé al declino delle funzioni cognitive. Noi la sostanza grigia del nostro cervello la perdiamo progressivamente dai 45 anni in poi; anche gli scimpanzé perdono sostanza grigia man mano che invecchiano, ma a loro succede molto meno. Non solo, ma l’invecchiamento del cervello per quanto ci riguarda è proprio nelle regioni più delicate, quelle che presiedono alle conoscenze, alla memoria, alla consapevolezza, cioè quelle che si trovano nella regione della corteccia prefrontale. Nel corso dell’evoluzione, il cervello dell’uomo è progressivamente aumentato di dimensioni, particolarmente nella regione della corteccia prefrontale e di quella orbito-frontale; è grazie a questo che siamo capaci di svolgere attività estremamente sofisticate e complesse. E queste aree sono quelle che maturano più lentamente durante lo sviluppo fetale, ma sono anche quelle che si deteriorano per prime durante l'invecchiamento. Gli anglosassoni chiamano questo fenomeno last in, first out, entra per ultimo ma esce per primo. Come facciamo a essere sicuri che sia proprio così? Gli scienziati hanno studiato il cervello degli scimpanzé e degli uomini (quasi 200 scimpanzé e quasi 500 uomini) con la risonanza magnetica: il decadimento si vede solo negli uomini. Vuol dire che gli scimpanzé non hanno l'Alzheimer? Sembra proprio di no, o perlomeno nessuno è mai riuscito a documentarlo.
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L'alzeimer è una malattia terribileOlga
RispondiEliminaLo so. Non per esperienza diretta (per fortuna), ma per il racconti che ho sentito da conoscenti.
EliminaTrovo ottimo il paragone informatico "last in first out" (acronimo LIFO), struttura logica che peraltro mi sta antipatica perché mi fa pensare a chi salta la fila in posta o dal medico... 😒😅 Meno male che negli argomenti che insegno è quasi tutto "first in first out" (FIFO).
RispondiEliminaPer il resto, so che il cervello in quanto organo funziona bene se tenuto attivo: quindi non smettere mai di informarsi, istruirsi, imparare qualcosa di nuovo, comunicare, tenere i sensi vigili... Tutte pratiche che funzionano da palestra meglio del piantarsi davanti a uno schermo televisivo perché "tanto ormai, che altro posso imparare? A chi interessa come la penso?"
Personalmente, a 50 anni (ma anche da un po' prima...) lamento qualche difficoltà ad apprendere nuovi concetti di una certa complessità (tipo un nuovo linguaggio di programmazione, o a memorizzare quanto riportato nel manuale della caldaia...), finché non riesco a costruire un mio metodo di apprendimento: a quel punto si sblocca qualcosa e mi sento competitivo e in grado di somministrare i concetti appresi.
Per questo credo che per contrastare quella LIFO che cerca di fare la furba, occorra stare sempre all'erta senza frustrarsi troppo se occorre un po' più tempo di quando avevamo 20 o 30 anni...
Oh, tranquillo, alla mia età (55 anni) ho smesso di frustrarmi da tempo per le difficoltà cognitive, in particolare riguardo alla memoria a breve termine, che via via incontro.
EliminaCome diceva De Gregori: "Vent'anni sembrano pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi più".
Alzheimer è una malattia devastante non solo per chi la vive in prima persona ma per i parenti che la devono gestire.
RispondiEliminaPurtroppo questa malattia ha vari livelli, per cui il peggioramento è inevitabile. Non esser più riconosciuti da un proprio caro è difficile da accettare e vedere persone che erano vitali ed energiche trasformarsi in vegetali è tremendo.
Lo so. Come scrivevo sopra, non ho esperienza di familiari più o meno lontani colpiti da questa malattia, ma nella mia cerchia di amicizie qualcuno c'è, e quando capita il discorso ascolto racconti tremendi.
EliminaIo invece sto seguendo un corso online di Robert Sapolsky (ti posto il link al primo video della serie: https://www.youtube.com/watch?v=g26stRqDrKE ) sulla biologia del comportamento umano: ovviamente non è lo stesso argomento del tuo libro ma, suppongo, vi saranno di sicuro molti parallelismi...
RispondiEliminaPS: se hai tempo e voglia te lo consiglio, merita moltissimo!
Molto interessante, me lo segno per una prossima visione.
EliminaGrazie.