sabato 19 novembre 2016

Figlia del silenzio



Uno dei romanzi più belli letti nel recente periodo. Narra le vicende di una famiglia (anzi, di due) del Kentucky che si snodano in un arco temporale che va dal 1964 al 1989. L'autrice, Kim Edwards, a me totalmente sconosciuta fino a oggi, racconta nelle note della postfazione che il racconto è ispirato a un fatto realmente accaduto di sua conoscenza. Molto brevemente, in una notte tormentata da una forte tempesta di neve, alla protagonista, incinta, si rompono le acque. Il marito, medico, la carica in macchina e con non poche difficoltà riesce a trasportare la donna nell'ambulatorio di un suo collega, ostetrico, il quale però non riesce a raggiungerli a causa delle condizioni del tempo. Il parto lo esegue quindi il marito, aiutato dall'infermiera dell'ostetrico che nel frattempo è riuscita ad arrivare. Nascono due gemelli: un maschio, perfettamente sano, e una femmina, che il padre capisce immediatamente essere affetta dalla sindrome di Down. Mentre la madre è ancora sotto anestesia, il medico consegna all'infermiera la piccola, dicendola di farla sparire portandola con la macchina in un istituto di sua conoscenza. L'infermiera carica la bimba nella macchina e parte, ma quando si trova all'ingresso dell'istituto ci ripensa e porta la bambina a casa sua. Fa le valigie e sparisce il giorno dopo, abbandonando tutto e trasferendosi con la piccola in un'altra città e iniziando una nuova vita con lei. Il medico dirà alla moglie, mentendo, che la bambina era nata morta. La bambina crescerà, pur tra le difficoltà create dalla sua condizione, con quella che crederà essere la sua vera madre e diventerà adulta riuscendo in qualche modo a inserirsi nella società, mentre il fratello crescerà nella sua famiglia naturale. Una volta adulti, dopo mille vicissitudini i due infine si incontreranno.
Il romanzo ha una componente psicologica molto spiccata, e chi è genitore si riconoscerà perfettamente in moltissimi degli atteggiamenti che caratterizzano sia il rapporto del bambino con la sua famiglia naturale, sia quelli relativi ai rapporti tra la bambina e la famiglia adottiva. L'autrice, sempre nella postfazione, scrive che la pratica di abbandonare in istituti i bambini portatori di patologie evidenti era molto diffusa negli Stati Uniti degli anni '60 e '70. Ovviamente non è una giustificazione dell'operato del medico, il quale ha ritenuto di fare questa scelta unicamente per evitare un dolore alla moglie - un segreto che si porterà dietro tutta la vita e che negli anni distruggerà la sua esistenza e provocherà la disgregazione della sua famiglia.
Insomma, si tratta di un romanzo che fa riflettere, pensare; a tratti è crudele, spietato, ma sicuramente di quelli che restano in memoria.

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