La ragazza col trolley scese finalmente dal treno, era l'unica passeggera a scendere lì. Dopo aver attraversato il sottopasso pedonale arrivò nell'atrio della piccola stazione, poi uscì all'aperto. Erano le nove di una fredda sera di inizio dicembre e in giro non c'era nessuno, tranne il vento, che spazzava via le foglie morte cadute a terra dai platani. Sulla piazzetta antistante alla stazione vide un bar, con i vetri della finestra e della porta d'ingresso appannati per la differenza di temperatura tra l'interno e l'esterno. La ragazza si avviò in quella direzione, entrò e all'apertura della porta un piccolo campanello tintinnò. Il bar era molto piccolo, poco più di uno stanzone, col bancone sul fondo e tre tavolini nel mezzo. In uno di questi una coppia di anziani giocava a ramino. Accanto alla porta un ragazzo levò improvvisamente al cielo un'imprecazione, dopo aver mandato in tilt con uno scossone il flipper con cui stava giocando. Stizzito, indossò quindi il suo giacchetto e il suo berretto rosso e se ne andò sbattendo la porta. La ragazza lo guardò uscire, poi si avvicinò al bancone deserto.
"Scusate, c'è qualcuno qui al banco?" chiese rivolta ai due anziani che giocavano a carte al tavolino.
"Giovanni, c'è gente!" disse ad alta voce uno dei due senza alzare lo sguardo dalle carte. Dal retro, spostando una tenda verde, si affacciò un uomo sulla cinquantina, basso, tarchiato, completamente calvo e con un canovaccio sulla spalla, col quale stava probabilmente pulendo o asciugando qualcosa lì nel retro.
"Cosa prende?" chiese bruscamente l'uomo asciugandosi le mani al canovaccio e abbozzando una specie di sorriso, finto come una banconota da 30 euro.
"Un caffè, grazie." Il barista tarchiato si girò e cominciò ad armeggiare alla macchina del caffè, poi lo servì alla ragazza e le avvicinò il contenitore con le bustine di zucchero. "Per caso è possibile chiamare un taxi da qui?" chiese la ragazza mentre girava il cucchiaino nella tazza del caffè.
"Sì, il telefono è là, nell'angolo, vicino alla porta del bagno."
"Grazie."
"Spero che funzioni ancora," aggiunse lui, "è passato così tanto tempo dall'ultima volta che qualcuno mi ha chiesto di usarlo..."
"Ha ragione," replicò la ragazza, "ma non posso fare diversamente: temo di aver fuso la batteria del mio cellulare." La ragazza bevve il caffè e andò a telefonare al taxi, poi tornò al banco e pagò il barista, lo salutò e si avviò verso la porta, quindi uscì richiudendola dietro di sé. Si trovò così fuori, sul marciapiede, in balìa del vento freddo di dicembre. Dentro, il giocatore di carte che poco prima aveva chiamato il barista nel retro alzò lo sguardo.
"Non avresti dovuto lasciarla andare," gli disse, "è buio già da molte ore."
"Va' al diavolo!" disse il barista. "Cosa avrei dovuto dirle? 'Oh, signorina, è meglio che non se ne vada in giro da sola in questo cazzo di paese perché potrebbe essere pericoloso'? E poi sta arrivando il taxi a prenderla, quindi..."
"Non verrà nessun taxi, lo sai benissimo." Il barista tarchiato sparì nel retro senza replicare. La ragazza, fuori dal bar, dopo una lotta impari tra il suo accendino e il vento riuscì infine ad accendersi una sigaretta, mentre aspettava, inutilmente, che arrivasse il taxi. Dopo un po', spazientita, pensò di tornare dentro per richiamarlo, oppure per chiedere al barista come mai il taxi non arrivasse, poi decise di lasciar perdere: in qualche modo sentiva che quella sera non sarebbe arrivato nessun taxi. Gettò via il mozzicone della seconda sigaretta, alzò il manico del suo trolley e fece per incamminarsi. Al diavolo il taxi! pensò.
"Sai, non credo sia una buona idea." La ragazza trasalì. Si guardò intorno ma non vide nessuno. Poi, illuminata dalla luce fioca del lampione, vide palesarsi lentamente la sagoma di qualcuno. Era un tizio con indosso un giacchetto e un berretto rosso; la ragazza realizzò immediatamente chi fosse.
"Ehi, ma tu sei il ragazzo che poco fa giocava a flipper dentro al bar."
"Sì, sono io," disse lui sollevando la visiera del suo berretto rosso. La ragazza lo guardò e calcolò che avrebbe dovuto avere grosso modo una trentina d'anni. Poco prima, nel bar, non l'aveva osservato bene, ma adesso che se lo trovava di fronte concluse che si trattava di un bel ragazzo.
"Spaventare le ragazze di notte è il tuo hobby?" gli chiese, sorridendo.
"Scusa, non ti volevo spaventare, volevo solo metterti in guardia."
"Ah, sì? E in guardia da cosa?"
"Beh, è difficile da spiegare, ma non è salutare andare in giro soli, la notte, qui."
"Senti," gli disse la ragazza, "che ne dici se prima di spiegarmi che pericolo io stia correndo ci presentassimo? Io mi chiamo Marika."
"Io Marco." I due si strinsero la mano e si sorrisero. "Visto che, come dici tu, andare in giro di notte in questo paese non è salutare, che ne diresti di accompagnarmi?" Il ragazzo rimase un attimo perplesso.
"Perché no?" disse infine, sorridendo, e i due si incamminarono assieme.
"Dove sei diretta?" le chiese lui. "Cerco l'abitazione di un signore che abita in via... aspetta un attimo, ci guardo, non ricordo più." La ragazza tirò fuori un biglietto bianco da una tasca del cappotto, facendo attenzione che il vento non glielo strappasse dalle mani, poi lo lesse. "Ecco qua: via Nazario Sauro, 43. Ho parlato per telefono col signore che abita in questa casa e mi ha detto che è la decima traversa sulla destra del viale della stazione, dalla piazzetta sono meno di due chilometri. Se almeno fosse arrivato quel maledetto taxi." Marco la guardò. Un velo di disagio, misto a preoccupazione (o forse era timore?) gli ammantò il volto. Marika se ne accorse.
"Cosa c'è, Marco?"
"C'è... che qui non esiste alcuna via con quel nome." La ragazza lo guardò stupita.
"Quindi il tizio con cui ho parlato mi ha presa in giro? Ma che significa?"
"Marika, io non so con chi (o cosa, avrebbe voluto dirle) tu abbia parlato, ma quella via non esiste e non esiste neppure quel numero civico, e..."
"...e?"
"...probabilmente non esiste neppure quell'uomo."
"Ascolta, è la prima volta che vengo qui, non conosco questo paese e non conosco nessuno, e adesso che sono arrivata mi dici che la via in cui dovevo andare non esiste e che il tipo con cui ho parlato al telefono sarebbe una specie di fantasma. E ho l'impressione che tu sappia il perché di tutto ciò ma non me lo voglia raccontare. Forse ho diritto a una spiegazione, non credi?" Il ragazzo la guardò.
"Se te lo spiegassi non ci crederesti. Io so solo che tu te ne devi andare da questo posto, e lo dico per te." La ragazza si fermò. Il viale della stazione era un turbinio di foglie e vento, e la fioca luce dei lampioni danzava assieme ai rami dei platani che punteggiavano il viale. Anche Marco si fermò. Marika si guardò intorno, si fece guardinga, attenta, con tutti i sensi all'erta. Non era sola, lì, c'era Marco con lei, ma si rese conto di non sapere niente di lui, non sapeva chi fosse realmente. Prese improvvisamente coscienza di questo e provò un forte senso di disagio. Poi accadde qualcosa di strano e incredibile. Il terreno si mosse, fu come una specie di vibrazione, e Marika ebbe come l'impressione di trovarsi sul dorso di uno strano animale preistorico che si stesse alzando. A quel pensiero sorrise, divertita. Ma il divertimento momentaneo cedette immediatamente il posto alla paura, una paura vera, istintiva, forte, quella che nasce ogni volta che ci si trova di fronte a qualcosa di sconosciuto. Il terreno continuava a vibrare e, dal fondo del viale, Marika vide nascere dal niente una luce grande, bianca, molto forte, che avanzava verso di loro, velocemente. Mano a mano che la luce avanzava, inglobava come un incendio tutto ciò che incontrava: macchine parcheggiate, lampioni, alberi, foglie. Marco scosse la ragazza, ancora frastornata e impossibilitata a muoversi a causa dello spettacolo a cui stava assistendo.
“Corri, dobbiamo andarcene da qui!” le gridò strattonandola per un braccio. Marika si svegliò da quella specie di trance e cominciò a correre con lui. Poi rallentò.
“Aspetta, il mio trolley...”
“Ma che cavolo dici? Lascia perdere il trolley e corri, Cristo...” I due ripresero la corsa, tornando indietro verso la stazione. Il terreno continuava a vibrare, a muoversi, e la luce bianca li rincorreva, inesorabile, inghiottendo tutto ciò che trovava sul suo cammino. Marika si chiese cosa ci fosse là dentro, che fine facessero le cose che ne venivano inghiottite, poi decise che non le interessava e che non aveva alcuna intenzione di scoprirlo. All'improvviso inciampò in qualcosa e cadde a terra. Marco si fermò, le prese di nuovo il braccio e le urlò di alzarsi e ricominciare a correre. La luce era sempre più vicina. All'improvviso due fari spuntarono sulla strada, dalla parte opposta: una macchina veniva a tutta velocità verso di loro. Accostò sgommando e il guidatore, dal finestrino aperto, urlò a loro di salire. Marco e Marika aprirono la portiera posteriore e si tuffarono dentro, e la macchina ripartì a tutto gas invertendo il senso di marcia.
“Non sono mai stato così contento di vederti, Giovanni,” disse Marco al barista, il quale spingeva la macchina a tutta velocità lungo il viale deserto. “Cosa facciamo adesso? Dove andiamo?” chiese Marco mentre abbracciava a sé la ragazza, silenziosa e ancora frastornata da ciò che stava succedendo.
“Non lo so, ma dobbiamo cercare di uscire dal paese senza farci investire dalla luce.” Arrivarono alla piazzetta antistante alla stazione. Giovanni fermò un attimo la macchina e pensò mentalmente alla strada più breve da percorrere per uscire dal paese, dove sarebbero stati in salvo. Ripartì con una sgommata in direzione della circonvallazione, ignorando incroci, semafori (spenti), attraversamenti pedonali e tutto il resto, perché sapeva benissimo che in giro non ci sarebbe comunque stato nessuno. Dopo cinque minuti i tre riuscirono infine ad imboccare la circonvallazione, mentre il vento e il movimento del terreno aumentavano, procurando grosse difficoltà a Giovanni nel tenere in strada la macchina. Il confine, e quindi la salvezza, erano ormai a portata di mano, o almeno così credeva Giovanni, ma le cose, si sa, non sempre vanno come si vorrebbe che andassero. Un muro di luce bianca si presentò infatti improvvisamente, come sbucato dal nulla, davanti alla vettura. I tre ci finirono dentro. Marika urlò, mentre Marco continuava a tenerla abbracciata e Giovanni abbandonava il volante chiudendosi il volto nelle braccia. Tutto finì in un attimo.
* * *
“Papà, guarda, c'è una valigia,” disse il bambino al padre. I due si fermarono.
“Non è una valigia,” disse l'uomo al bambino, “è un trolley. Chissà come mai si trova qui, in mezzo al viale?”
“Forse è stato perso da qualcuno,” ipotizzò il bimbo.
“Mmh... mi sembra difficile,” disse l'uomo, “probabilmente è stato abbandonato nella notte da qualcuno.”
“Lo apriamo per vedere cosa contiene?” chiese incuriosito il bambino.
“No, non è roba nostra, e sicuramente sarà vuoto. Se è stato lasciato qui, si vede che al proprietario non serviva più.”
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