Ogni tanto si sente dire che la scuola italiana, oggi, è disastrosa. Non lo si sente tanto in tv, telegiornali o media mainstream in genere, quanto maggiormente da singole voci isolate (Galimberti, ad esempio, nelle sue conferenze batte molto su questo, attirandosi tra l'altro gli strali di docenti e professori). Naturalmente generalizzare è sempre scorretto, ma che la scuola sia oggi in uno stato disastroso credo sia sotto gli occhi di tutti. L'Ocse che un paio d'anni fa certificava come noi italiani siamo in Europa all'ultimo posto nella comprensione di un testo scritto, cioè sappiamo leggere ma non capiamo cosa leggiamo, è forse la dimostrazione più lampante di questo disastro.
Questo libro, scritto dalla scrittrice Paola Mastrocola e da Luca Ricolfi, sociologo e docente di Analisi dei dati, racconta questo disastro e come ci si è arrivati. È un libro crudo, un j'accuse che non fa sconti a nessuno e che racconta, lucidamente e impietosamente, le tappe ("riforme") che hanno nel corso degli anni abbassato la qualità e il livello formativo della scuola, dalle medie inferiori all'università, fino quasi ad azzerarsi. Ma questo libro fa anche altro: dimostra empiricamente, ossia alla luce dei dati, che la narrazione secondo cui una scuola più facile e di bassa qualità diminuisce il solco tra ceti alti e ceti bassi è privo di fondamento. È l'esatto contrario: "Chi crede nell'uguaglianza delle condizioni di partenza, chi pensa davvero, come recita la Costituzione, che 'i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi', dovrebbe battersi perché tutti possano cimentarsi con successo in studi alti, non abbassare il livello perché tutti possano vincere. E invece è precisamente questo - abbassare per democratizzare - che è stato fatto, proprio da coloro che proclamavano di avere a cuore le sorti degli umili."
Il grande problema della scuola di oggi, secondo la Mastrocola, che oltre che scrittrice è stata insegnante di lettere nei licei per trentacinque anni, è che gli otto anni tra elementari e medie non preparano più a ragionare. Il grande problema del divario nel successo negli studi non è dovuto solo al vecchio luogo comune che chi ha maggiori possibilità economiche, relazionali, di status riesce meglio degli altri, ma a una mancanza generale di preparazione dovuta alla scarsissima qualità formativa degli otto anni in questione. Cito qui di seguito un brano che a questo proposito mi sembra oltremodo significativo:
Va bene, la tesi dei fautori della "scuola democratica" è dunque più che confermata: le origini e l'ambiente contano. Cose risapute. E ripetute fino alla nausea. Ma la loro tesi si ferma qui. Non mi basta, mi sembra che manchi un pezzo molto importante. Un aspetto che viene sempre trascurato. Un "piccolo dettaglio" che da anni cerco di mettere in evidenza. [...] Questo aspetto trascurato, questo minuscolo dettaglio è... la preparazione. Il livello di studio. La qualità e quantità delle "cose" insegnate-imparate. Torno al figlio dell'idraulico e formulo la mia ipotesi: se spesso non arriva a laurearsi, forse non è soltanto perché è figlio dell'idraulico (ipotesi vecchia, datata, fortemente ideologica: insomma, troppo facile!); forse non fa il liceo e non arriva a laurearsi... perché non ci riesce. E non ci riesce perché ha fatto una scuola che non lo ha preparato abbastanza. Ecco. Per questo mi arrabbio da una ventina d'anni (una ventina d'anni, direi dalla riforma Berlinguer in poi: governo progressista, incredibile!). Perché io questo ho visto nella scuola. Ho visto ragazzi (non solo figli di idraulici, ma figli di quella classe media o medio-bassa non così svantaggiata ma neanche così agiata) che arrivano in prima liceo totalmente digiuni di nozioni basilari, di quel minimo di conoscenze dovute e, soprattutto, necessarie ad andare avanti negli studi. [...] Un ragazzo non potrà fare il liceo se noi per otto anni (cinque di elementari e tre di medie) non gli abbiamo insegnato quasi niente o, se gli abbiamo insegnato qualcosa, poi non abbiamo anche deciso di esigere e di pretendere che quelle cose le sapesse! Non farà né il liceo né l'università, un ragazzo, se non sa scrivere, non sa fare un discorso compiuto, se non sa capire il senso (profondo, sfumato, metaforico, ironico...) di quel che legge, e se non sa ripetere con parole su quel che ha studiato. Siamo stati noi a farne uno svantaggiato, uno che non parte uguale, che non ha le stesse opportunità iniziali. Noi! [...] Non possiamo lasciarli uscire così impreparati dopo otto anni di scuola! Allo stesso modo, all'università non sono in grado di affrontare gli esami (se non quelli più facili delle cosiddette facoltà deboli, la cui laurea però non li porterà da nessuna parte), per cui s'iscrivono, arrancano un anno o due e poi mollano. Per questo mollano: per questa loro inadeguatezza cognitiva e culturale, che è il risultato delle scelte scriteriate che noi abbiamo compiuto nella scuola, soprattutto, lo ripeto, negli ultimi vent'anni. Mollano a causa della scuola che noi abbiamo deciso per loro, non è il colmo?
La lunga stagione di smantellamento della qualità dell'offerta formativa della scuola parte nel 1963 con l'abolizione dell'avviamento e l'introduzione della scuola media unica, senza l'obbligo del latino, e arriva fino a oggi. A questo proposito scrive Luca Ricolfi:
Fu così che Marco [suo fratello] e io avemmo la fortuna, e il privilegio, di frequentare la "vecchia" scuola media con il latino, l'analisi logica, l'Iliade, la geometria analitica e tutto il resto. Di quel periodo ricordo soprattutto tre cose, una oggettiva e le altre due soggettive e private. La cosa oggettiva è che, in quei tre anni, grazie a due professoresse eccezionali, una di italiano e latino, l'altra di matematica, imparai più cose, e cose più durature, di quelle che avrei imparato nei successivi cinque anni di liceo classico. Le medie dure resero più leggeri i miei anni di liceo, consentendomi, specie in latino e in italiano, di "vivere di rendita".
Lo smantellamento della scuola media, iniziato con le riforme dei primi anni Sessanta ebbe il suo colpo di grazia nell'anno 2000, con la riforma Berlinguer, quella che istituì i progetti extracurriculari, la valutazione oggettiva (i test), e il diritto al successo formativo. Cambiava la sostanza: la scuola diventava un'impresa, si agganciava al mondo del lavoro, o meglio, tentava goffamente di assumere i valori e i criteri della produzione e del mercato. E contribuì a produrre i risultai che Paola Mastrocola racconta così:
Ogni anno prendevo una nuova prima e ogni anno mi trovavo davanti una trentina di ragazzi tra i quattordici e quindici anni sempre più impreparati. O meglio, incapaci. Non era tanto l'impreparazione (la pura mancanza di nozioni) a stupirmi, quanto l'incapacità di parlare e scrivere. Due "cose" che reputavo fin da allora abbastanza basilari. Negli scritti facevano errori ortografici e grammaticali, ma soprattutto non riuscivano a costruire un discorso dotato di senso e strutturato secondo una logica, voglio dire con i nessi logici bene al loro posto. Nelle interrogazioni orali non ce la facevano a parlare per più di un minuto, poi si fermavano muti, o balbettavano qualche parola spersa nel vuoto. Ricordo che guardavo l'orologio per misurare il tempo esatto in cui riuscivano a tenere il discorso; non lo facevo per crudeltà, ma perché non ci potevo credere, e avevo bisogno di capire. Altro fatto sconcertante: di fronte ai romanzi che normalmente da anni ero abituata ad affidare in lettura, i miei nuovi allievi restavano basiti e mi dicevano di non averci capito un bel niente. In particolare capitò con Il fu Mattia Pascal: mezza classe mi disse proprio così, che non aveva capito non tanto le parole, quanto il senso delle frasi. Me lo ricordo perché nella mia mente si disegnò netto il disastro, mi vidi tutte le frasi di Pirandello cadere in un precipizio. Allora cominciai a poco a poco a cambiare tutto. Diminuii le ore di letteratura (riducendo i brani antologici da leggere) e aumentai le ore di grammatica. Mi misi anche a fare dettati ortografici, e smisi di fare leggere certi autori: Pirandello e Pavese furono i primi a cadere, tra gli italiani. Poi toccò a Calvino. Sì, persino a Calvino, dico Il barone rampante... In prima liceo... Ci fu una madre che, ai consigli di classe, mi chiese espressamente di non farlo leggere più: troppo difficile, come potevo dare un libro simile a ragazzi di quell'età? Non capii bene che cosa stesse succedendo. Mi limitai a constatare. Mi era chiaro, però, che il problema stava a monte: quei ragazzi arrivavano così da otto anni di scuola. Che cosa avevano studiato? E in che modo? E cosa potevamo fare noi per loro, al liceo?
Mi fermo qui perché non posso citare tutto il libro. Ma spero di avere reso l'idea di cosa contiene. A me ha dato un'idea lucida e chiara delle reali dimensioni di quel disastro di cui finora avevo solo sentito parlare qua e là, in maniera discontinua e sconnessa. Mi è servito per mettere insieme tutti i pezzi e capire.
Di solito non invito a leggere i libri di cui parlo, mi limito a recensirli alla bell'e meglio, ma se l'argomento vi interessa e volete capire da dove arriva quell'analfabetismo funzionale di cui deteniamo il triste primato in Europa, leggetelo. Non è solo un atto d'accusa spietato e dolente, è soprattutto un grande atto d'amore verso il mondo della scuola e dell'università.