La guerra è la più grande follia del mondo, il più distruttivo dei comportamenti, e non può essere attribuito alle dinamiche del singolo, alla follia di un solo uomo. La guerra è un sistema, un apparato che trova radici in una società intera e viene coltivato, come se domani la si dovesse dichiarare. Si radica nell'odio: in quel sentimento che riveste l'altro di inimicizia e lo percepisce minaccioso come un nemico. Uno stridore che non rimane dentro un singolo, ma si propaga e si fa sinfonia di morte. Come un'orchestra che prova per una première di morte. Una musica che si estende a tutta una nazione, un'orchestra di fucili, di cannoni, di bombe.
Lo ribadisco, c'è un direttore di guerra ma vi partecipano tutti: chi tirando le corde dei violini, chi soffiando nelle trombe che urlano come nell'Apocalisse. L'odio che risuona, che si propaga, che assorda. Per impedire la guerra, bisogna contenere e contrastare l'odio; per fermarla occorre lavorare sull'odio. Se a un colpo di cannone si risponde con un cannone, a un morto si aggiunge un morto e a una strage, una strage ancor più tremenda, allora la guerra non si ferma e la vita si fa guerra. I bambini nascono dentro i carri armati e le donne danno alla luce soltanto soldati. Quando l'odio si scatena e la guerra distrugge, chi non aveva motivo per combattere acquisisce ragioni personali e lo fa per i propri morti. L'odio è un potenziale esplosivo più della bomba atomica, è l'arsenale che ciascuno si porta dentro. È l'arma che ognuno di noi possiede senza un permesso, senza un senso. L'odio spara, l'odio può essere risvegliato in ogni momento. Dopo i primi colpi sparati senza senso, tutti sparano con una ragione anche se cercano di farlo inconsapevolmente. Cecchini automatici, aguzzini della morte.
Scriveva Primo Levi nell'appendice a Se questo è un uomo: "Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande e a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente nella sua adesione al nazismo; chiudeva la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l'illusione di non essere a conoscenza e quindi di non essere complice di quanto avveniva davanti alla sua porta."
Molti storici hanno voluto vedere nella guerra una legge ineliminabile, un ritmo, e hanno ritenuto che la guerra sia un comportamento collettivo incontenibile. La storia del mondo scorre alla presenza continua di guerre, come se si trattasse di un bisogno della collettività, di un correttivo, di un sedativo periodico e dunque terapeutico, per legare un popolo in maniera più salda. Una follia del pensiero, una elaborazione che sa di perversione.
Io credo che l'odio abbia radici nell'uomo, nella sua paura, nel suo bisogno di potere, nel desiderio di difendersi da un "predatore", ma credo anche che non abbia nulla di fatale, perché lo stesso uomo prova l'amore, la compassione e la solidarietà. Credo poi che l'odio sia ritualizzabile e non lo si debba portare nella cronaca con la forza di una guerra. Il rito permette di liberare la violenza senza o con il minor danno possibile. Un danno persino simbolico. L'uomo sembra aver perduto le liturgie della violenza sia per la violenza del singolo che per quella delle masse, della società intera. Insomma, l'odio è un'esperienza umana che può essere controllata e fermata, liturgizzata, e ciò è possibile se si coltiva la cultura della pace, se si mostra la grandezza del perdono sulla miseria della vendetta, se si vede nell'altro e nel diverso non un demone ma un potenziale amico. E soprattutto se si impiegano le strategie della cooperazione e non quelle del successo proprio o della propria fazione. È certo necessario azzerare l'odio del passato, l'odio della storia, trasmesso attraverso le generazioni. Serve un condono dall'odio riflesso. Una eliminazione del debito d'odio e di violenza accumulatosi.
La guerra non è fatale. Ci sono popoli che non hanno fatto mai la guerra e non hanno nemmeno un termine nel loro vocabolario per esprimere questo comportamento. Gli eschimesi per esempio. Ci sono invece popoli che sono sempre in guerra e che si fondano sulla predazione e sul sopruso, sulla logica della forza. Sono le popolazioni guerriere. Bisogna fare di tutto per chiudere le guerre in corso, ma contemporaneamente partire per bandire l'odio. Fare di tutto per non prepararsi alla guerra, Che significa preparare una guerra Anche se ancora non ha nemico. Gli armamenti sono degli incipit per una guerra che ci sarà. È illusorio pensare di armarsi per la pace, per impaurire il possibile aggressore. La distinzione dei confini e la separazione netta tra le razze, invece di una coabitazione comune, sono la premessa odierna di una guerra che combatteranno i nostri figli. La scienza bellica è un'anticipazione per una battaglia che si farà di certo. È tempo di affermare che non c'è differenza tra un odio di difesa e uno di attacco. Chi spara per primo vede in colui che ha colpito un aggressore che avrebbe sparato un attimo dopo. L'odio è una aporia della specie, ritenuto follemente uno strumento difensivo utile alla sopravvivenza del singolo e della società.
Si potrebbe vivere in un mondo che profuma di pace e non che puzza di cadaveri. Quando considero la povertà di popolazioni intere, la morte di bambini senza cibo e penso al costo economico della guerra, vedo il mondo come un enorme manicomio fatto di folli che sembrano sapienti e invece sono idioti. Quando penso che molti sono pronti a giurare sulla guerra giusta e credono che ammazzare possa essere persino un dovere, mi rendo conto di quanto profonda sia stata la manipolazione del buon senso e del volere degli dèi. L'uomo ha fatto dire persino al Signore Iddio che è tempo di uccidere. Da non credente sono certo che nessun Dio mai ha pronunciato una simile sentenza.
(da Dentro la follia del mondo, Vittorino Andreoli)