sabato 14 marzo 2009

Dove vanno i soldi requisiti alla mafia?

Con una certa frequenza giornali e telegiornali annunciano pomposamente i successi dello stato nella lotta alla mafia: operazioni, arresti (tipo quello di ieri a Bagheria), bande sgominate e nello stesso tempo, dopo ogni operazione, l'entità dei beni sequestrati. Entità tra l'altro di tutto rispetto, almeno stando a quanto dichiarato alcuni giorni fa da Maroni:

«Nel 2007 - ha rilevato Maroni - vi sono stati sequestri di beni mafiosi per 1,5 miliardi di euro, una somma salita a 4,3 miliardi di euro nel 2008». Il Viminale continuerà a prestare «grande attenzione» ai «tentativi di ricostituzione della cupola», così come «all'immigrazione clandestina e al terrorismo, soprattutto quello di matrice jihadista».

Qualcuno ha pensato (per una volta giustamente) che parte di questi beni potevano essere convogliati alla giustizia. Sapete bene che i tagli alla giustizia, assieme a quelli alle forze dell'ordine, sono infatti una costante di ogni legislatura. Nel novembre scorso è quindi entrata in vigore una legge (Legge 13 novembre 2008, n. 181) che prevedeva l'istituzione di un fondo da cui prelevare le risorse necessarie a far fronte di volta in volta ai bisogni della giustizia.

Tutto bene quindi, verrebbe da pensare. Peccato che le cose non siano però andate proprio in questo modo. Almeno stando a quanto racconta Bruno Tinti, un ex Procuratore della Repubblica che prestava servizio a Torino, del quale riporto un estratto di un articolo pubblicato sul blog Uguale per tutti.

Proprio per questo, quando è entrata in vigore la legge 13 novembre 2008 n. 181, gli uffici giudiziari hanno emesso un corale respiro di sollievo.

C’era la prospettiva di diventare ricchi.

Diceva infatti questa legge che le somme di denaro e i proventi derivanti dai beni confiscati nell’ambito di procedimenti penali o per l’applicazione di misure di prevenzione dovevano confluire in un «Fondo per la Giustizia»; da qui i soldi sarebbero stati prelevati per far fronte alle esigenze degli uffici giudiziari.

Finalmente! Si sarebbero comprati elaboratori, pagati gli straordinari ai cancellieri (così si sarebbero fatte le udienze anche di pomeriggio), realizzati quei progetti informatici fermi da anni per mancanza di fondi.

Finalmente! Stenotipisti, traduttori, consulenti sarebbero stati pagati e avrebbero ricominciato a lavorare.

Finalmente! Si sarebbero riparate le vecchie macchine e comprata qualche blindata nuova.

Era anche giusto, si diceva: la Giustizia produce un sacco di soldi, sequestra, confisca; se queste risorse fossero investite produrrebbero anche parecchi interessi.

E cosa c’è di più razionale che far pagare la Giustizia ai delinquenti? Cosa di più normale che autofinanziarsi?

Si scoprì subito che le prospettive non erano così rosee; perché di pretendenti alla torta se ne fecero avanti altri.

E così, dopo molti litigi parlamentari (leggersi il resoconto stenografico delle sedute in cui la legge venne discussa, è molto istruttivo), il bottino venne diviso in tre parti: un terzo all’Interno, un terzo al Bilancio dello Stato (ci sono tanti buchi da coprire) e un terzo alla Giustizia.

Una vera rapina, ma meglio di niente.

Poi è arrivato il decreto legge sulla violenza sessuale; anche qui naturalmente servono soldi, se non altro per pagare il gratuito patrocinio alle vittime.

E in effetti il «Fondo per la Giustizia» di soldi ne ha prodotti parecchi: adesso disponibili ci sono 100 milioni di euro.

Solo che, dice il comunicato stampa della presidenza del Consiglio dei ministri (20 febbraio 2009), questi soldi se li prende tutti il ministero dell’Interno.

Naturalmente non si può contestare che anche lì non si nuota nell’oro e che far girare le volanti e pagare gli straordinari ai poliziotti è certamente una buona cosa.

Ma anche le guerre tra poveri dovrebbero essere risolte con equità: si divida come era previsto dalla legge (anche se i soldi li ha guadagnati la Giustizia) dando un po’ di ossigeno a tutte due le amministrazioni.

Anche perché la povertà genera inefficienza e l’inefficienza genera delusione, rabbia e sfiducia nei cittadini.

Che alla fine se la prendono con chi non li tutela.

Ma guarda, forse la rapina di cui la Giustizia è rimasta vittima non è proprio così casuale: ancora una volta la sua inefficienza potrà essere attribuita ai magistrati; il Paese si potrà convincere più facilmente che i giudici sono dei fannulloni; la loro credibilità ne sarà ulteriormente diminuita; e la classe politica potrà ancora una volta protestare che le sue democratiche riforme sono osteggiate dalla magistratura «politicizzata».

E i cittadini ci crederanno.

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