L'elemento più significativo per la morte della ragione non è la memoria dei numeri di telefono o quella delle immagini, ma la memoria semantica, che attribuisce significato alle parole. Senza la memoria del senso, muoiono le parole, il vocabolario si riduce, ma soprattutto si appiattisce quella modulazione che personalizza un termine. Così l'uso delle parole stesse si riduce, la composizione delle frasi, del periodare proprio del linguaggio diventa sterile e, di conseguenza, il pensiero si impoverisce. A me pare che Benedetto Croce avesse ragione quando sosteneva un'equazione tra pensiero e lingua come contenitore necessario, non tanto per esprimerlo ma perché prendesse forma. La perdita della memoria semantica condurrà a una regressione dei contenuti del pensiero e la banalizzazione della semantica riportata al litio invertirà il senso stesso del processo evolutivo del nostro cervello. Ci renderà più stupidi (Homo stupidus stupidus) e in balia dei costruttori di memorie digitali. Le grandi scoperte di Platone moriranno. Già ne vediamo i segni agonici. Hanno dell'incredibile l'ignoranza e la stupidità del tempo presente. La semplificazione della scuola ha fatto sì che gli adolescenti non riescono più a seguire un testo letterario, per l'elevato numero di parole rispetto a quello del loro linguaggio quotidiano, tanto che non ne capiscono il senso e fanno fatica a leggere un'opera che descrive la nostra civiltà nei suoi tempi remoti, ma anche recenti. Ecco perché si è attirati sempre più dalle immagini, che sono dirette, mentre le parole presuppongono dei simboli che rimandano a dei significati. Senza memoria semantica, le capacità mentali si impoveriscono e ritorniamo a livello degli scimpanzé, dei bonobo, i quali comunicano, ma tutto si riduce agli imperativi darwiniani della sopravvivenza. E si cancella persino la bellezza, che è parte della civiltà e della creatività.
(da Homo stupidus stupidus, l'agonia di una civiltà, Vittorino Andreoli)
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