Inclusa la "morte naturale" nello spazio della ragione, che è poi lo spazio che resta quando si esclude tutto ciò che la scienza non riesce a spiegare, la vita, espressa in quella valutazione quantitativa con cui la medicina la contabilizza, rimane esposta a quell'incalcolabile che è l'accidente e la catastrofe, che sono tali solo per quella logica disgiuntiva che, per aver fatto della vita un valore assoluto, non può fare a meno di relegare nell'assurdo e nell'incomprensibile tutto ciò che la minaccia.
Non così per i primitivi che, nei loro scambi simbolici e ambivalenti con tutto ciò che li circondava, erano in grado di comprendere la catastrofe, l'accidente, la malattia, la morte violenta e imprevista, che per noi sono diventati l'assurdo della ragione, l'inintelligibile puro, la riluttanza ostinata e perversa di una natura che non vuole sottostare alle leggi "oggettive" della scienza.
"Naturale" è la morte per vecchiaia, quella che tutti accettiamo perché ubbidisce a quell'itinerario biologico che è poi il modello con cui la scienza ci ha abituati a pensare il nostro corpo. Ma proprio perché siamo persuasi della "naturalità" di questa sopravvivenza che ogni giorno, grazie alle tecniche mediche, guadagna la vita sulla morte, la terza età perde senso, se non diventa addirittura un "peso morto", al contrario di quanto accadeva presso i primitivi dove il vecchio era un'espressione simbolica fondamentale per il gruppo.
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La vecchiaia è una ricchezza solo se l'esperienza acquisita può essere scambiata in una dinamica di gruppo come accadeva presso i primitivi, ma quando questo scambio simbolico si rivela impossibile, la vecchiaia diventa un insignificante accumulo di anni che la società atomizzata deve sopportare e sopporta, traducendo in una morte sociale anticipata la vita biologica inutilmente guadagnata perché non scambiata. Resa "naturale" dalla vecchiaia che la scienza medica ha prolungato, la morte non commuove più; circoscritta nella cellula familiare è seppellita senza lutto e senza quella festa con cui i primitivi, per i quali non esisteva una morte "naturale", propiziavano gli spiriti avversi che quella morte avevano procurato. Liberandoci da queste "superstizioni primitive", la scienza medica ci ha liberato anche del significato collettivo della morte, per cui si muore da soli, per ineluttabilità "biologica", "naturalmente", senza partecipazione.
Non è un caso che oggi si ritrovi la partecipazione di gruppo solo di fronte alla morte violenta, quella che avviene in piazza, non per usaurimento di un processo biologico, ma per attentato, per passione politica, per un'idea. Sono le morti che assomigliano al sacrificio dei primitivi, le uniche che si caricano di valenze simboliche e che perciò si scambiano, circolano nel gruppo che si incarica di rivivere quella vita, e nel momento della sepoltura grida "è vivo!" Non si tratta infatti della morte "insensata" che avviene sotto l'equivalente generale delle leggi di natura, ma della morte che si scambia tra i componenti del gruppo, quella data e ricevuta, l'unica che abbia senso, e che perciò muove le folle. Insopprimibilità del simbolico, rivincita del corpo sul suo simulacro biologico.
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Ponendosi come controllo progressivo della vita, la medicina ha sacralizzato se stessa, e i medici hanno ottenuto per sé quella venerazione che un tempo riscuotevano i sacerdoti delle antiche religioni. Sopravvivenza ultraterrena allora, sopravvivenza terrena oggi. Dalla "salvezza" alla "salute" la logica è sempre quella della presentazione della vita come valore, con conseguente rifiuto della morte che sfugge alla legge del valore. In questo senso, e solo in questo senso, la morte è un male che la medicina cerca di controllare con quella serie di procedure che, disponendo della morte, impongono la vita. Organi artificiali, rianimazione intensiva, agonie prolungate a qualsiasi costo, trapianti d'organo, che finalità perseguono se non il riconoscimento incondizionato del valore biologico della vita, senza la minima considerazione della sua qualità esistenziale? Ciò che è stato consacrato, ciò a cui è stato riconosciuto un valore assoluto, ancora una volta non è la vita del corpo, che non ha mai temuto si scambiarsi con la morte come nell'esperienza suicida, ma quella del suo simulacro biologico.
È su questo simulacro che veglia la medicina col suo rigoroso controllo su tutta l'estensione della vita e della morte. Obbligando a sopravvivere e impedendo di morire, la medicina svolge il ruolo di controllo repressivo, sottraendo a ciascuno la libertà della propria vita e della propria morte. Negata la morte decente, quella personale, quella che uno si sceglie, siamo consegnati alla morte "biologica" sotto controllo medico. Una morte che, a differenza del suicidio, non sfida la società e non la accusa delle "condizioni di vita" a cui la obbliga. Dissuasione dalla morte attraverso una continua mortificazione, questa la condizione fondamentale con cui si assicura la vita nelle nostre società, esattamente come nell'ascesi cristiana, dove ci si assicura la salvezza e la vita eterna attraverso una accumulazione continua di sofferenza e di penitenza.
Nel tentativo di allontanare la morte come atto finale e antagonista della vita, abbiamo finito col diffonderla in tutti i luoghi in cui la nostra vita si propaga. Di qui l'intervento della medicina preventiva con le sue vaccinazioni, le sue norme per la sicurezza del lavoro, l'educazione scolastica, l'igiene, il controllo delle nascite, dei virus, delle epidemie, per cui la malattia viene accerchiata e la società medicalmente investita e in ogni settore controllata non solo dai medici che vigilano sulla salute pubblica, ma dalle istanze politiche che vigilano sull'esercizio della medicina.
(segue)
(Tratto da Il corpo, Umberto Galimberti, 1983)
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