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sabato 30 aprile 2022

Le ragioni del dubbio


Ho appena terminato questo libro e ho preso coscienza di una cosa: da adesso in poi il mio modo di scrivere, interagire, approcciarmi agli altri e anche alla lingua non sarà più come quello di prima. Sarà diverso: probabilmente meno supponente e meno "rigido".

Vera Gheno è una sociolinguista specializzata in comunicazione digitale che per vent'anni ha collaborato con l'Accademia della Crusca, e ha scritto questo libro in cui, fondamentalmente, suggerisce alcuni metodi per utilizzare al meglio le parole e il linguaggio sui social media ma anche nella vita reale. Non per diventare più bravi, per riuscire a produrre migliori performance, ma per migliorare il proprio modo di comunicare e, di riflesso, migliorare la propria vita. Perché oggi, che viviamo nell'era dell'antropocene e della comunicazione, saper comunicare bene utilizzando il dubbio, la riflessione e il silenzio - anche il silenzio è una forma di comunicazione - migliora la qualità della vita.

Molte cose mi hanno colpito, in questo libro, e mi hanno fatto comprendere tutta una serie di errori che fino ad oggi non mi ero reso conto di commettere.

Un concetto molto interessante riguarda gli approcci che teniamo nei confronti della presunta stupidità altrui (mai la nostra). Scrive a questo proposito l'autrice: "Vedo troppe persone gonfie di sapienza, ricolme di nozioni come granai, che invece di pensare a come perpetuare ciò che sanno si arroccano nelle loro torri d'avorio, disprezzando la ggènte che è stupida. E lo stesso discorso - quello della gente stupida, e quindi dell'inevitabilità di un certo grado di paternalismo in ambito politico - l'ho sentito fare tante volte anche a persone che, per orientamento politico, dovrebbero essere interessate alla sorte degli ultimi, e non considerarli un peso, un impiccio. La gente è stupida? Chi lo dice, stranamente, non fa mai parte dell'entità indistinta così definita. Per quanto mi riguarda, è sbagliato trattare le persone da stupide; casomai, occorrerebbe chiedersi se a tutte le persone - non una di meno, per richiamare le parole di Tullio De Mauro - viene data uguale possibilità di evolversi e di far evolvere il proprio pensiero (e di conseguenza lavorare perché venga loro data)."

Questo concetto mi ha fatto venire in mente ciò che scrisse tempo fa Roberta Covelli commentando l'articolo della Costituzione che recita: "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana [...]" La Covelli rimarcava il fatto che la summenzionata "Repubblica" non è un misterioso ente astratto o metafisico che si trova da qualche parte nell'etere, ma siamo noi. Tutti noi comunità. E quegli ostacoli che impediscono a tutti di svilupparsi pienamente siamo noi a doverli rimuovere. Un concetto abbastanza scomodo, se ci si pensa, specialmente in rete, dove allo stupido si usa buttare addosso il crucifige piuttosto che chiedersi perché, eventualmente, sia stupido e quanta parte della stessa stupidità alberghi in noi.

Altro capitolo molto interessante e condivisibile è quello in cui l'autrice critica ferocemente i cosiddetti "grammarnazi", ossia coloro che correggono ossessivamente gli errori linguistici (degli altri) nel linguaggio formale e in rete. Certo, cose come "qual'e" sono errori da 4, non si discute, ma i continui cambiamenti e il modificarsi della lingua potrebbero un giorno portare a considerarlo accettato. Dino Buzzati e Italo Calvino scrivevano "ciliege" e "valige", ad esempio, e ai loro tempi (gli anni Sessanta, non due secoli fa) era corretto mentre oggi non lo è più. E i casi che si potrebbero citare sono tantissimi. Questo succede perché la lingua non è qualcosa di granitico e immutabile ma cambia continuamente col passare del tempo. "Per l'esattezza, ogni lingua sana cambia al mutare della realtà che deve rispecchiare. Dunque, è naturale che la lingua di oggi, il giorno in cui qualcuno legge queste righe, sia diversa dal giorno in cui queste righe le ho scritte, ma magari anche da quella di una settimana fa. [...] Quando ci si irrigidisce sulla norma e ci si abbarbica alle regole, quale sarà l'atteggiamento nei confronti delle novità e di ciò che non si conosce? Non ci vuole molto a immaginarlo: fastidio e repulsa. La mancanza di elasticità porta a un istintivo misoneismo, ossia odio per tutto ciò che è nuovo, inedito, visto come qualcosa che mette in crisi lo status quo. Più in generale, chi è rigido è xenofobo, che etimologicamente non vuol dire 'razzista', ma 'che ha in odio tutto ciò che è straniero, alieno'. [...] I grammarnazi, in ogni caso, non sono mai davvero competenti. Di solito, sono persone che a scuola erano pure bravine, ma che poi, per vari motivi, si sono fossilizzate su quelle posizioni senza evolversi ulteriormente. Il che, in un contesto fluido e per definizione soggetto al cambiamento continuo come quello delle lingue vive, può diventare davvero un problema. E allora, quando si ha la sensazione di cominciare a essere fuori sincrono rispetto al presente, ci si rifugia, impauriti, nella certezza delle regole note, schifando ogni possibile cambiamento, ogni devianza." Insomma, la lingua cambia, le parole mutano, diventano polisemiche, cambiano morfologia, ne nascono di nuove, altre diventano desuete, poi inutilizzate e infine tolte dai vocabolari, per poi magari rientrarci successivamente. È normale che sia così, guai se non fosse così, perché la lingua è viva e in movimento.

Chiudo riproponendo i dieci suggerimenti che l'autrice pubblica come riassunto finale del libro, un libro che consiglio caldamente a chiunque, a vario titolo, si interessi di comunicazione, magari perché gestisce un blog o un sito, o anche solo perché ha un account su qualche social. Che poi, in definitiva, sono suggerimenti che hanno una loro utilità anche nelle normali relazioni fuori dalla rete. 

A me questo libro è servito un sacco.

  1. Riconosci e pattuglia i limiti della tua conoscenza. Stana stereotipi e automatismi linguistici. Resisti all'istintiva xenofobia umana.
  2. Poniti dubbi su quello che leggi e senti; chiediti se qualcuno sta provando a manipolarti. Se qualcosa ti infastidisce, chiediti perché.
  3. Pratica l'aikidō della comunicazione: non rispondere a violenza verbale con violenza verbale, non schernire chi sa meno di te o chi sbaglia, ignora l'aggressività e rimani sulla questione.
  4. Costruisci la tua reputazione in un certo ambito: non c'è bisogno, e non è possibile, sapere tutto. Anche il più esperto lo è in un determinato campo.
  5. Pratica l'autoironia, ma non difenderti mai dicendo che eri ironicə.
  6. Sii capace di riconoscere il tuo errore.
  7. Se non capisci, di' che non hai capito; se non lo sai, di' che non lo sai.
  8. Ricordati che sei sempre in pubblico: i nostri spazi privati sono più ristretti di quanto pensiamo e vanno difesi curando bene la "faccia pubblica".
  9. Non smettere mai di studiare e approfondire; la conoscenza non è mai abbastanza. Trova una dieta mediatica varia ed equilibrata. Coltiva la curiosità.
  10. Quando serve, scegli il silenzio.

Quanto mi secca avere sempre ragione

Un mio collega (un altro) è positivo al covid. Ha 39 di febbre e accusa malesseri importanti (ossa, muscoli, affanno respiratorio). Oltre a essere novax da sempre è anche un negazionista della prima ora, uno di quelli, cioè, che affermano che il virus non esiste, è un complotto e blablabla. Intendiamoci, mi spiace che stia male e spero si rimetta al più presto, ma non nego di provare una lievissima forma di piacere, quel piacere che nasce dal poter dire: "Te l'avevo detto, io." Che poi, alla fine, pensandoci, quel "te l'avevo detto io" non significa niente, dal momento che si ammalano (anche se statisticamente in misura minore) persone vaccinate e attente. 

Quindi, alla fine, tutto si riduce a quel "Quanto mi secca avere sempre ragione" pronunciato da Jeff Goldblum in Jurassic park.

giovedì 28 aprile 2022

Democrazia

Posto che il concetto di democrazia si presta a mille interpretazioni, vale la pena sottolineare - questa cosa la diceva Giovanni Sartori - che un paese non è democratico perché permette ai cittadini di andare a votare. Noi non siamo una democrazia perché ogni tanto ci rechiamo in una cabina elettorale. Andare a votare è solo un modo, uno dei tanti, per scegliere i capi. 

Una democrazia è tale quando ci sono sufficienti asili nido per permettere alle mamme di lavorare; quando per poter effettuare una visita medica non si è obbligati ad aspettare un anno; quando la possibilità di accedere agli studi non è subordinata al censo e così via. In altre parole, una società si può definire democratica quando offre a tutti i suoi cittadini le stesse possibilità e consente ad essi di potersi emancipare.

Alla luce di tutto questo, qualche domanda su quanto siamo democratici credo che ce la possiamo porre.

Ho visto Nina volare

Ho scoperto per caso che Zucchero ha realizzato una sua versione di Ho visto Nina volare, una struggente e intensa ballata di De André inserita nel suo ultimo (ahimè!) album di inediti pubblicato nel 1996: Anime salve. Solitamente non amo i rifacimenti di canzoni di autori che mi piacciono, ma devo ammettere che la versione di Zucchero è molto interessante e coinvolgente. 

La canzone non ha un testo dal significato immediatamente intelligibile, è vago, ermetico, a suo modo etereo, indefinito, e forse la sua poesia sta anche in questa indefinitezza. Alcuni tentativi di analisi del testo sono comunque stati fatti, come questo, ad esempio. Ma alla fine credo che ognuno possa vedere in quella bambina che vola tra i fili dell'altalena chiunque voglia.

 

Mastica e sputa, da una parte il miele 

mastica e sputa, dall'altra la cera 

mastica e sputa, prima che venga neve 

 

Luce luce lontana, più bassa delle stelle 

quale sarà la mano che ti accende e ti spegne 

Ho visto Nina volare tra le corde dell'altalena 

un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena 

e se lo sa mio padre dovrò cambiar paese 

se mio padre lo sa mi imbarcherò sul mare 

 

Mastica e sputa, da una parte il miele 

mastica e sputa, dall'altra la cera 

mastica e sputa prima che faccia neve 

 

Stanotte è venuta l'ombra, l'ombra che mi fa il verso 

le ho mostrato il coltello e la mia maschera di gelso 

e se lo sa mio padre mi metterò in cammino 

se mio padre lo sa mi imbarcherò lontano 

 

Mastica e sputa, da una parte il miele 

mastica e sputa, dall'altra la cera 

mastica e sputa prima che metta neve 

 

Ho visto Nina volare tra le corde dell'altalena 

un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena 

Luce luce lontana, che si accende e si spegne 

quale sarà la mano che illumina le stelle 

mastica e sputa prima che venga neve

 

Questa è la versione originale contenuta nell'album di De André.

 

 

Questa, invece, è la versione di Zucchero.


 
 
 
Ho visto Nina volare a parte, penso che Anime salve sia uno degli album di musica d'autore più belli degli ultimi trent'anni.

Doppio cognome

Quando ho letto della sentenza della Consulta, che certifica il diritto di assegnare a un figlio entrambi i cognomi dei genitori o anche solo quello della madre, la prima cosa che ho pensato è stata: finalmente! E poi mi sono chiesto i motivi per cui si sia dovuto aspettare il 2022 perché si muovesse qualcosa in questo senso. Ma d'altra parte siamo pur sempre anche il paese dei Pillon, che infatti non l'ha presa bene, ho letto.

Naturalmente adesso tocca al legislatore dare forma di legge alle indicazioni della Corte costituzionale, e qui potrebbero nascere i problemi perché, è noto, il Parlamento non si è notoriamente mai mostrato particolarmente sollecito a tradurre in concretezza legislativa le spinte dei supremi giudici su vari altri argomenti. Vedremo.

mercoledì 27 aprile 2022

Aramostre


Racconta Vera Gheno, nella prefazione a Le ragioni del dubbio, che ho appena iniziato, di aver letto tanta fantascienza e tanto fantasy. Anche io ho letto tanto fantasy, e quindi so cosa sono le "aramostre" :-)

martedì 26 aprile 2022

Noi schiavisti


Ho terminato questo libro provando due diverse sensazioni: senso di colpa e incredulità. Il senso di colpa è generato dalla consapevolezza di essere, come consumatore, corresponsabile delle più variegate forme di schiavismo e sfruttamento su cui si regge buona parte dell'economia del nostro paese; l'incredulità è generata dalla presa di coscienza delle dimensioni del fenomeno (presente non solo in Italia, in verità).

Il fenomeno dello sfruttamento nel mondo del lavoro si origina indietro nel tempo, nei primi anni Novanta, quando con quello che è generalmente noto come Pacchetto Treu venne inaugurata l'epoca del lavoro cosiddetto flessibile (la flessibilità è un termine gentile con cui si è sempre cercato di edulcorare la precarietà). Lavoro flessibile via via rafforzato nel corso degli anni con altre riforme del lavoro che sono sostanzialmente sempre andate nella stessa direzione (ne avevo già parlato qui). 

Il senso di colpa di cui parlo nasce dal fatto che io, come tutti, quando vedo in un supermercato offerte che sembrano incredibili e ne approfitto, contribuisco ad alimentare questo perverso meccanismo di sfruttamento, perché ogni volta che trovo le cosce di pollo a 2 euro al chilo o i pomodori a prezzi stracciati, vuol dire che dietro ci sono gli schiavi di oggi che per fare arrivare sui banchi quei prodotti a quel prezzo lavorano per 12 ore al giorno a 2 o 3 euro all'ora, sabato e domenica compresi, e vanno a ingrossare il giro d'affari del caporalato, delle cooperative di lavoro in subappalto che sfruttano migliaia di persone senza diritti e che vengono ricattate appunto perché in virtù del loro status non possono rivendicare alcunché (stranieri, irregolari, poveri ecc.). 

Ho fatto l'esempio della carne e della frutta, ma questo sfruttamento si è ormai infiltrato in ogni altro settore dell'economia: sanità (sì, anche gli ospedali, oggi, reclutano personale appoggiandosi a cooperative), assistenza ad anziani (le famose badanti), edilizia, cantieristica nautica, logistica, manifattura, commercio, trasporti, industria e via di seguito. A proposito di badanti, ad esempio, ho scoperto una cosa che non sapevo: esistono solo in Italia. Le abbiamo inventate noi. E le abbiamo inventate noi perché, a differenza degli altri paesi europei, come al solito molto più lungimiranti, di fronte al progressivo invecchiamento della popolazione non abbiamo cominciato per tempo a immaginare forme di assistenza pubbliche e abbiamo consegnato i nostri anziani a un esercito di badanti dietro alle quali, molto spesso, manco a dirlo si nasconde il racket. 

L'aspetto paradossale e tragico di questa situazione è che non c'è via d'uscita perché è una situazione che fa comodo a tutti. Scrive a questo proposito l'autrice: "Un sistema [quello dello schiavismo] che va avanti da anni, legale, che fa comodo a tutti, ai consumatori e alle aziende, alle cooperative e alle ditte di lavorazione della carne, alla politica di destra, che può addossare agli immigrati la colpa di rubare il lavoro agli italiani, e a quella di sinistra, che ha uno storico rapporto con le cooperative; fa comodo agli immigrati che trovano lavoro e appena possono diventano intermediari o fondano una cooperativa o una ditta di subappalto a loro volta, agli italiani che possono acquistare prodotti o servizi a bassissimo costo che altrimenti non si potrebbero permettere. Fa comodo a me, che posso andare al supermercato e trovare il tacchino a 2,5 euro al chilogrammo. Ma accettare questo sistema significa accettare che esistano cittadini e schiavi, paghe di seria A e paghe di serie B. Si potrebbe dire che l'Italia è diventata una 'Repubblica democratica fondata sul lavoro in subappalto' perché questo sistema si replica, identico, in diversi settori."

Circa il sistema delle cooperative e del lavoro in subappalto potrei parlare tantissimo perché ne ho esperienza diretta. Mi limito solo a dire che (già lo sapevo, ma dopo aver letto questo libro ne ho ancora maggiore consapevolezza) mi ritengo un privilegiato, oggi, a poter lavorare da ben 32 anni con un contratto a tempo indeterminato con tutte le garanzie di legge.

lunedì 25 aprile 2022

Preferisco chi spiega le cose


Io mi sono fatto una idea sui motivi per cui Orsini è così detestato, e il principale credo stia nel fatto che spiega le cose. Cioè non si limita a buttare là affermazioni e a dare in pasto al pubblico degli slogan. Esterna idee, esprime concetti, ma subito dopo spiega perché ha esternato un dato concetto, perché ha espresso una data idea. E pretende di portare a termine la spiegazione anche se viene interrotto. 

Il fraintendimento di ciò che dice credo nasca dal fatto che, in generale, non siamo più abituati ad ascoltare e comprendere ragionamenti appena più complessi di uno slogan. Abbiamo sul groppone anni e anni di Salvini, di Renzi, di Berlusconi (e altri), che hanno sempre fatto politica con slogan composti di dettati ipnotici totalmente privi di ragionamento retrostante. Siamo talmente impregnati di superficialità e di distinzione manichea tra bianco e nero che non siamo più in grado di approcciarci a un ragionamento complesso. E siccome non lo capiamo, ecco che scatta lo stigma e l'etichetta (putiniano, filofascista ecc.) da imprimere al malcapitato di turno che ha osato esprimere un ragionamento anche solo un poco articolato. 

Ciò non significa, naturalmente, che si debba condividere tutto ciò che dice, che è una pretesa senza senso; significa che prima di gettare il crucifige addosso a qualcuno, condizione indispensabile è capire ciò che dice. Poi, certo, si può criticare per mille motivi (a me ad esempio ha sempre infastidito una certa spocchia e una certa aria da unico sul pianeta a capire cose che voi comuni mortali non capite), ma al di là di questo io preferisco mille volte ascoltare chi ha una competenza e chi, pur a volte con piglio eccessivamente accademico, spiega le cose, piuttosto che farmi intortare dal Salvini di turno.

domenica 24 aprile 2022

La Russia di Putin


La Russia di Putin è un libro che impressiona. Impressiona perché da fuori non si riesce a farsi l'idea di cosa sia la Russia sotto Putin. Forse, lentamente, qualcosa si è cominciato a intuire dall'invasione dell'Ucraina, che ha indotto molti a documentarsi e a cercare di avere qualche informazione su chi sia Putin e come "governi" il paese di cui è a capo dal 2000.

Il libro di Anna Politkovskaja, assassinata nel 2006 nell'androne del palazzo in cui abitava, a Mosca, ritrae un quadro impietoso di un paese in completo sfacelo, devastato dal comunismo prima e dalla svolta capitalista avvenuta dopo il crollo dell'Unione sovietica. Un paese dove il crimine, la corruzione e il malaffare regnano sovrani e infettano ogni ganglio dell'apparato statale: politica, forze armate, magistratura. 

Uno dei capitoli che lascia maggiormente stupefatti è la descrizione di ciò che succede nell'esercito, dove gli ufficiali e i più alti in grado hanno diritto di vita e di morte sui sottoposti, i soldati semplici, che vengono sottoposti a ogni genere di sevizie, torture e angherie, fino ad arrivare alla morte - esistono associazioni di genitori di giovani deceduti sotto le armi che si battono per sapere che fine abbiano fatto i loro figli. Un sistema criminale che non teme nulla perché gli autori possono contare sulla totale impunità grazie alla corruzione di un apparato giudiziario totalmente asservito al potere dittatoriale instaurato da Putin.

Putin non governa la Russia. La Russia è cosa sua e lui ne fa ciò che vuole. Tutto è sotto il suo controllo o sotto il controllo dei suoi fedelissimi. Ogni apparato dello Stato, fin nelle sue più periferiche articolazioni, è diretto da ex funzionari del KGB che rispondono solo a lui. L'opposizione è solo formale, in realtà non esiste, così come la libera stampa. Un qualsiasi cittadino vittima di soprusi o ingiustizie di qualsiasi tipo non ha alcuna speranza di vedersi riconosciuta giustizia perché i tribunali seguono la logica, voluta da Putin, che l'interesse dello Stato ha preminenza sull'interesse del singolo, e se i due interessi confliggono quello dello Stato prevale.

È un libro che disarma, lascia allibiti, un libro che tutti dovrebbero leggere. In particolare lo dovrebbero leggere i vari Salvini, Berlusconi e compagnia cantante che per un decennio hanno decantato le lodi da statista dello zar russo, lo hanno corteggiato, si sono vantati di averlo come amico, ci hanno fatto selfie insieme, pur sapendo chi è e come "governa" la Russia.

sabato 23 aprile 2022

Breve resoconto della presentazione di un libro di Vera Gheno

A volte è sorprendente come gli avvenimenti capitino per caso e stravolgano il corso di una giornata che sembrava incanalata sui soliti binari. Così doveva essere anche questo sabato: un sabato come gli altri. Invece stamattina, mentre sfogliavo il giornale al bar davanti ai soliti cappuccino e cornetto, ho casualmente letto che nel pomeriggio ci sarebbe stato, qui alla "mia" biblioteca di Santarcangelo, la biblioteca Baldini, un intervento di Vera Gheno, che avrebbe parlato di comunicazione, lingua, linguaggio, e avrebbe presentato il suo ultimo saggio Le ragioni del dubbio. Ho quindi deciso di andarci pur non conoscendo, se non vagamente di fama, l'autrice in questione, e anche perché il titolo del libro mi sembrava interessante. 


 

Mi ha fatto piacere rimettere piede, dopo un tempo abbastanza lungo, nella mia amata biblioteca, dove ho scoperto (cosa che mi ha fatto molto piacere) che c'è un gruppo di lettura formato da ragazzi tra i 12 e i 15 anni che si ritrova regolarmente per leggere La bambina che amava Tom Gordon, di Stephen King.

 

 

La presentazione, interessantissima, aveva purtroppo i tempi abbastanza contingentati ed è durata solo un'ora. Peccato. Vera Gheno è una affabulatrice nata: ironica, spigliata, competente; per un'ora ha intrattenuto i presenti raccontando un po' di sé: i suoi studi, le sue pubblicazioni, il suo ruolo di ricercatrice all'università di Firenze. La parte più interessante dell'intervento ha riguardato, ovviamente, le sue discettazioni su comunicazione e linguaggio. Mentre parlava ho preso alcuni appunti, ma solo durante la prima mezzora, poi ho lasciato perdere perché ascoltarla era talmente interessante che non volevo distrarmi, scrivendo, col rischio di perdere qualcosa del suo intervento.

Elenco qui di seguito, brevemente, alcuni dei temi toccati.

Uno su cui ha insistito molto riguarda la facilità con cui oggi, tramite la rete, possiamo accedere alla comunicazione, alle notizie. Ma com'è la qualità di questa comunicazione? Il maggiore problema che la riguarda, oggi, è che coi media digitali e con la televisione abbiamo a disposizione un flusso ininterrotto e velocissimo di notizie, immagini, stimoli, che proprio a causa di questa velocità non riusciamo a fissare. Se si viene sommersi da una quantità eccessiva di stimoli, la nostra mente non riesce a elaborarli compiutamente, deve giocoforza operare una selezione. Per riuscire a renderli il più possibile digeribili, questi stimoli vengono quindi forniti in maniera semplificata, eliminando la loro complessità, perché complessità e velocità non sono compatibili, e la prima vittima di questa velocità è la possibilità/capacità di pensare.

Questo concetto non è nuovo - ne ho già parlato anch'io, in passato, su queste pagine -, è già stato studiato da sociologi e psicologi tra cui Andreoli, Crepet, Galimberti e altri. Galimberti, ad esempio, definisce la nostra epoca l'epoca della velocizzazione del tempo. Noi non viviamo, come hanno fatto le generazioni precedenti alla nostra per migliaia di anni, nel tempo, ma nella velocizzazione del tempo. Tutto dev'essere immediato, non esiste più la possibilità della riflessione, della ponderazione; a un messaggio bisogna rispondere subito con altro messaggio pena l'insorgenza di ansia e angoscia. Vera Gheno ha fatto l'esempio delle mail, raccontando che le capita spesso di ricevere messaggi di posta elettronica a cui, se non risponde in tempi ristrettissimi, segue subito una seconda mail o altro tipo di messaggio coi quali le si chiede ragione della mancata risposta. Questa velocizzazione del tempo costituisce, anche se noi non ce ne rendiamo conto, una mutazione antropologica radicale a cui non siamo abituati, che ci prende in contropiede e obbliga alla semplificazione. È anche a causa di questo che nascono le cosiddette polarizzazioni manichee dove tutto è solo bianco o solo nero, dove c'è un cattivo e un buono, uno che ha totalmente ragione e l'altro totalmente torto, uno rigorosamente in possesso della verità e l'altro della fallacia. E tutto ciò che sta nel mezzo, le sfumature, le gradazioni, in altre parole la complessità, non conta, non è importante, ruba troppo tempo.

A proposito di mancata complessità, la Gheno ha fatto un interessante riferimento al modo in cui, a volte, vengono strumentalmente confezionati i titoli che devono attirare la nostra attenzione. L'ha fatto prendendo come esempio il recente caso di cronaca - avevo letto qualcosa anch'io - in cui a un gruppo di persone disabili è stato negato l'accesso a un treno. Se un giornale fa un titolo tipo "Negato l'accesso a un treno a un gruppo di persone disabili" la prima cosa da fare è drizzare le antenne, mettersi sul chi va' là, evitare la immediata reazione/indignazione di pancia. Perché è tutto troppo bello, troppo semplice; in un titolo del genere viene già indicato nettamente al lettore chi è il buono (i disabili) e chi il cattivo (l'addetto che fisicamente ha impedito loro di salire, in senso più generale le ferrovie). Ma magari la situazione non è così semplice, ci possono essere (e immagino ci siano sicuramente) motivi diversi a noi sconosciuti che hanno generato e che spiegano questa incresciosa situazione, ma noi non li sappiamo perché magari sono nascosti in qualche minuscola riga in fondo all'articolo. A noi viene dato in pasto il titolone strumentale col preciso scopo di spingerci ad abbandonarci a reazioni di pancia e inondare i social di post indignati. In altre parole, ci siamo cascati, e ci siamo cascati perché non abbiamo più la possibilità e/o la capacità di pensare che le cose possono essere più complesse di quanto raccontato nel titolo. E poi, diciamolo, come si fa a rinunciare al piacere che dà poter esternare davanti all'universo mondo la nostra sacrosanta e fondamentale indignazione, evitando di prendere in considerazione l'idea di tacere fino a quando, magari, della vicenda si è capito qualcosa di più?

Altri punti toccati, ma li elenco solo altrimenti finisco domattina, riguardano l'assurdità della pretesa di democrazia nell'informazione, in ossequio alla quale un terrapiattista può vedersela alla pari in un dibattito televisivo con chi dice che la terra è sferica; oppure il fastidio recato dagli esperti in una materia che si trasformano in esperti di tutto, tipo certi virologi che diventano anche esperti di linguistica, geopolitica e tanto altro.

Alla fine, naturalmente, il libro l'ho comprato e mi ci butterò non appena avrò terminato il saggio di Anna Politkovskaja che sto leggendo in questi giorni. E so già che mi piacerà.

 

Vera (Gheno)


Ho scoperto casualmente stamattina, mentre leggevo il giornale al bar, che oggi pomeriggio la saggista Vera Gheno presenterà qui alla biblioteca di Santarcangelo il suo ultimo libro, Le ragioni del dubbio. Ho sentito spesso parlare di lei anche se non ho mai letto niente di suo: potevo lasciarmi sfuggire questa occasione?

(Piccola nota a margine: a me il nome "Vera" fa sempre tornare alla mente l'omonina canzone che i Pink Floyd, nell'album The Wall, dedicarono alla cantate e attrice britannica Vera Lynn.)

venerdì 22 aprile 2022

Giornalisti

Sto leggendo in questi giorni La Russia di Putin, di Anna Politkovskaja, un duro atto di accusa all'attuale presidente russo e al regime da lui instaurato nella Russia del dopo Boris Eltsin. Anna Politkovskaja, forse la giornalista che maggiormente, oltre a svelare le nefandezze del regime, ha documentato le due guerre tra Russia e Cecenia, fu uccisa nel 2006 con due colpi di pistola nell'androne del palazzo dove abitava, a Mosca. Le (lacunose) indagini portarono all'arresto degli esecutori materiali del delitto ma sui mandanti non si è mai riuscito (voluto?) a fare luce.

Casualmente ho letto in questi giorni della concessione dell'estradizione negli USA, da parte dell'Inghilterra, del giornalista e attivista Julian Assange. Assange è cofondatore di WikiLeaks, l'organizzazione divulgativa attraverso la quale, nel 2010, furono fatti conoscere al mondo i crimini e gli abusi commessi dagli USA nelle guerre in Iraq e Afghanistan. Assange, negli USA, rischia una condanna a 175 anni di carcere per la sola colpa di aver fatto il suo mestiere di giornalista.

Naturalmente i due casi non mostrano importanti analogie, se non per il fatto che entrambi i giornalisti hanno subìto le conseguenze dell'aver parlato di ciò di cui non si doveva parlare. E fa una certa impressione vedere come anche noi occidentali, sempre così critici verso i regimi in cui i giornalisti vengono perseguitati, alla fine non è che ci comportiamo così diversamente nei confronti di quelli scomodi.

giovedì 21 aprile 2022

Libri elettronici

Questa cosa degli ebook mi toccherà provarla, prima o poi, non è che uno possa restare per sempre indietro mentre il mondo avanza. Sì, lo so, il profumo della carta, una matita in mano per sottolineare, segnarsi appunti a margine, fare le orecchie, tutti "piaceri" che magari sparirebbero, ma probabilmente il libro elettronico offre altri vantaggi. 
Il problema è che ho paura che, provandolo, poi mi piaccia.

martedì 19 aprile 2022

L'ultimo rimasto

L'ultimo rimasto viene regolarmente maltrattato dai figli. Lui e sua moglie, tanti anni fa (io non ero neppure nato), aprirono il piccolo negozio di alimentari dall'altra parte della strada. Non c'era niente, lì, allora, e il negozio si avviò subito bene. Sono passati i decenni. Il negozio è ancora lì e oggi lo gestiscono i figli della coppia e i nipoti. La moglie se n'è andata qualche anno fa. È rimasto lui. Anziano, molto anziano, che lentamente, col suo passo un po' incerto, continua a girare tra gli scaffali e le scansie: sistema qualche articolo, riordina i cartellini coi prezzi, poi va nel reparto frutta e verdura e controlla che non ce ne sia qualcuno ormai un po' troppo maturo e non più vendibile. 

Ogni volta che mi vede mi saluta e io saluto lui, ci conosciamo fin da quando io ero bambino e ancora scambiamo qualche chiacchiera. Più di una volta, però - mi è capitato ancora stasera -, assisto ai suoi maltrattamenti da parte dei figli. È una persona anziana, va col suo passo, ma nel negozio c'è spesso da fare, c'è gente che ha fretta, va di corsa, e lui in tutto questo è d'impiccio e quindi gli viene intimato, in maniera brusca, di tornarsene di sopra, nell'appartamento, ché lì c'è da fare. E allora lui se ne va. 

Magari non lo fanno con cattiveria, forse non se ne rendono neppure conto, ma fa male vedere il modo in cui viene allontanato. Pensavo che le persone anziane, spesso, non c'entrano niente con la sfavillante e rutilante società di oggi, dove tutto va di corsa, dove scorre la "civilità". E pensavo anche che, con tutto il nostro considerarci progrediti, non siamo riusciti a costruire una società in cui ci sia posto per tutti.

Attese (del proprio turno)

Discuto con un collega riguardo a un argomento che ci pone in contrapposizione. Io ascolto le sue argomentazioni cercando di non unterromperlo. Quando dico la mia, ogni tre parole vengo interrotto. Gli faccio notare questo suo atteggiamento (senza puntualizzare che è anche un po' da maleducati). La sua risposta: "Hai ragione, è che non me ne accorgo, non ci faccio caso." 
Credo che in generale stiamo perdendo la capacità di ascoltare, di stare al nostro posto, di rispettare delle gerarchie. Non so bene come dire...

lunedì 18 aprile 2022

Piccoli


Ho terminato poco fa Il Big Bang e l'origine dell'universo, del fisico spagnolo Antonio M. Lallena. Non è il primo libro che leggo relativamente a questi argomenti, ma ogni volta una cosa non smette di stupirmi: la nostra insignificanza all'interno dell'universo, ma ancora di più mi sorprende il fatto che a questa cosa generalmente non si pensi.

Vedi cara

Un passo di una vecchia canzone di Guccini recita: "Vedi cara, è difficile spiegare, è difficile capire, se non hai capito già." Mi è venuta in mente mentre cercavo di approfondire la questione della guerra in Ucraina. Ho passato quasi tutta la giornata di ieri e la mattinata di oggi a leggere articoli, documenti, ascoltare storici ed esperti, guardare video per cercare di capire le cause che hanno innescato la decisione di Putin di invadere l'Ucraina. E ho capito alcune cose. 

La prima è che si tratta di una storia estremamente complessa e articolata (vabbe', questa era facile). La seconda è che pretendere di poterne discutere su un social o su un blog è cosa che fa sorridere. La terza è che non c'è nessuno che abbia totalmente torto e nessuno che abbia completamente ragione. 

La quarta è che l'Occidente ha avuto responsabilità enormi, accumulate nell'arco degli ultimi trent'anni, nel determinare il tragico epilogo a cui siamo arrivati. E alcuni degli errori commessi sono marchiani. La quinta è che l'invasione dell'Ucraina sono, metaforicamente parlando, gli ultimi 30 secondi di un film che dura ore, o, per stare in ambito letterario, le ultime due pagine di un romanzo. Si può capire una storia intera (film o libro che sia) dal suo epilogo? No. 

Con questo non voglio dare l'impressione di giustificare ciò che ha fatto Putin, capiamoci bene, ma solo rimarcare il fatto che la narrazione imperante del Putin cattivo contro l'Occidente buono è una semplificazione ridicola che non offre alcuna possibilità di potere farsi un'idea anche solo approssimativa della realtà delle cose. E qui l'informazione ha responsabilità enormi. I telegiornali e i media in generale, invece di stare lì a ogni ora a farci il resoconto dell'ultima strage, dell'ultima carneficina o dell'ultimo scempio, invece di profondersi in quest'inutile e rivoltante spettacolarizzazione del dolore, cosa che ogni altro media del mondo non fa, renderebbero senz'altro un servizio migliore cercando di spiegare il pregresso, fornendo magari qualche breve approfondimento.

E invece no. I media stanno facendo con la guerra esattamente ciò che hanno fatto per due anni col covid: spettacolarizzazione invece di spiegazioni. Ogni giorno il bollettino dei morti, le immagini delle terapie intensive, le storie tragiche e patetiche di chi ha perso cari ecc., tutte cose di nessuna utilità se non l'appagamento di quella morbosità latente che è naturalmente insita in ognuno di noi.

Non sto dicendo che non si debba fare cronaca o non si debba parlare di ciò che succede (guerra o pandemia che siano), sto dicendo che sarebbe molto più utile, e forse eticamente accettabile, evitare certe spettacolarizzazioni e impiegare più tempo ed energie in approfondimenti e spiegazioni, approfondimenti e spiegazioni possibilmente non sempre inseriti in una narrazione a senso unico.

domenica 17 aprile 2022

Lucio Dalla, Bettino Craxi e gli euromissili

Su La Stampa di ieri c'era una bellissima intervista a Samuele Bersani nel quale, tra le altre cose, il cantautore riminese parlava dell'imminente tour che lo porterà in giro per l'Italia e del suo ultimo album, Cinema Samuele, uscito nel 2020.

Samuele Bersani, come è noto, è una "creatura" di Lucio Dalla, nel senso che è uno dei molti artisti scoperti, valorizzati e lanciati dal grande cantautore bolognese. Nell'intervista in questione Bersani parla di lui con deferenza e affetto, rievocando momenti del loro sodalizio artistico e della loro amicizia, e menziona anche la grande cultura e competenza di Dalla riguardo all'attualità politica, invitando, per averne conferma, a cercare su YouTube la chiacchierata tra lui e Bettino Craxi sulla questione degli euromissili (la vicenda relativa all'installazione di missili nucleari a medio raggio sul territorio europeo da parte di USA e URSS che tenne banco nei primi anni Ottanta).

Incuriosito come non mai, mi sono messo a cercare quella chiacchierata e sono riuscito a trovarla. Sono rimasto a bocca aperta. Nella suddetta chiacchierata, che ripubblico qui di seguito, si può ascoltare un Lucio Dalla che disquisisce con Craxi di geopolitica, Europa, società con la stessa competenza di un docente universitario. 

Intendiamoci, non ho mai pensato che Lucio Dalla fosse ignorante, anche perché apparteneva a una generazione di cantautori (Guccini, De André, De Gregori, Gaber, Fossati, Graziani e altri) colti, gente che studiava, che leggeva, che sapeva, ma sentirlo padroneggiare questi argomenti con tale competenza e padronanza mi ha comunque sorpreso.


sabato 16 aprile 2022

La storia di Lisey

Le ultime 250 pagine di questo monumentale romanzo di Stephen King le ho lette tutte in un fiato tra ieri pomeriggio e la tarda notte. Perché King - non sempre ma molto spesso - è così: tiene incollati alle pagine e impedisce di abbandonarle fino all'epilogo.

La storia di Lisey è un romanzo complesso, introspettivo, psicologico, drammatico, con un continuo ricorso a flashback che obbligano il lettore a tenere sempre alta l'attenzione pena lo smarrimento, un romanzo con una larga componente fantastica (qui King è da sempre maestro) e immancabili sfumature horror. 

Narra le vicende di Lisey, vedova dello scrittore di successo Scott Landon, che dopo due anni dalla morte del marito decide di entrare nel suo studio per riordinare le sue carte, i suoi appunti, i suoi manoscritti. Non è un lavoro tranquillo, questo, perché riprendendo in mano le sue cose si apre una cascata di ricordi, ricordi che - ne prenderà coscienza piano piano Lisey - non si riaffacciano alla memoria in maniera casuale. 

Scott non era un uomo "normale", la sua infanzia era stata costellata da vicende familiari drammatiche (tra queste, le vessazioni a cui era sottoposto dal padre), spesso al limite del reale e il successo dei suoi romanzi era dovuto alla trasposizione in essi di questo suo lato oscuro, che Lisey aveva imparato a conoscere molto bene. La non casualità del riaffiorare dei ricordi induce la vedova dello scrittore a pensare che il mondo immaginario da cui Scott traeva ispirazione per la stesura dei suoi scritti, forse non era così immaginario e in qualche modo stia adesso cercando di approcciarsi a lei.

Vicende del romanzo a parte, La storia di Lisey è una bellissima descrizione di uno dei modi in cui la mente può elaborare un lutto, in particolar modo il lutto per la perdita di una persona, in questo caso il marito scrittore, che è stata al fianco di un'altra persona per 25 anni, 25 anni di profonda intimità e complicità.

Non è un romanzo semplice, da fine settimana per distrarsi, e i giudizi su di esso sono spesso contrastanti, suddivisi più o meno equamente tra chi l'ha abbandonato dopo le prime trenta pagine e chi l'ha considerato uno dei grandi capolavori di King. Io mi colloco tra i secondi.

Pasqua e Natale

Mi ha sempre incuriosito il fatto che la Pasqua sia - io almeno ho questa impressione - una celebrazione più "piccola", più dimessa, più tranquilla rispetto al Natale. Il Natale lo si comincia ad aspettare almeno un mese e mezzo prima che arrivi, il clima natalizio precede di molto il 25 dicembre e si prolunga almeno fino all'Epifania. La Pasqua, invece, si "consuma" in un attimo: domenica, lunedì e tutto finisce. Sì, ok, c'è tutto il periodo della Quaresima, ma mi sembra molto meno "sentito" del periodo cosiddetto di Avvento che precede il Natale. 
È curiosa questa cosa perché, se ci si pensa, il fulcro del cristianesimo non sta nella nascita di Cristo, tra l'altro mutuata da un antico rito pagano, ma (per chi crede, ovviamente) nella sua risurrezione. Se non c'è questa crolla l'asse portante su cui si regge la religione cristiana. Eppure nelle celebrazioni e nel "sentire" comune sembra che sia molto meno importante. Ma magari è un'impressione mia, che vedo il tutto da fuori.

mercoledì 13 aprile 2022

Televisione

Ieri sera ho acceso la televisione dopo una vita che non lo facevo più. Ho fatto un po' di zapping partendo, come credo si usi fare, dal tasto 1 e poi a seguire. Mi sono imbattuto in un gioco in cui si doveva indovinare di chi era parente (figlio?) un tipo. Poi, proseguendo con lo smanettamento del telecomando, un telefilm, un telegiornale e una sfilza di talk-show in cui "esperti" di ogni risma elargivano ai malcapitati telespettatori verità fondamentali sulla guerra in Ucraina. 

Preso dallo sconforto stavo per spegnere, finché non sono capitato su un canale che stava trasmettendo un documentario naturalistico. Mi ha affascinato e mi sono perso nel racconto della bellezza e della "crudeltà innocente" della natura (in realtà la natura non è crudele, è fatta così, siamo noi che abbiamo l'abitudine di esprimere giudizi morali su fatti naturali). E niente, mi sono perso in quel bellissimo documentario e un'ora è volata senza che me ne sia neppure accorto. Forse la televisione non è in fondo tutta da buttare.

Presunta immoralità



Anche oggi sono qua, a manipolare tonnellate di alberi e foreste trasformati in giornali pieni di gossip che verranno poi acquistati da signore insoddisfatte della propria vita, sfogliati frettolosamente e poi gettati. A volte penso che il mio lavoro sia immorale.

lunedì 11 aprile 2022

Le Pen

Mi chiedo come si faccia, nel 2022, a votare la Le Pen. Una che vorrebbe tornare all'autarchia. L'autarchia, ossia la Francia, da sola, contro il resto del mondo, cosa che definire anacronistica, oggi, è un eufemismo. Leggo che ha preso una grossa quantità di voti dagli operai, categoria che storicamente, in ogni parte del mondo, si è sempre richiamata alla sinistra. 

Ma anche la Lega qua da noi ingloba da tempo voti dagli operai. Forse la sinistra in Italia e Macron in Francia qualche domanda sarà il caso che comincino a porsela, in particolare riguardo ai motivi che da tempo spingono le categorie più "deboli" a gettarsi nelle braccia della destra. Ma, è noto, qua in Italia non siamo mai stati particolarmente bravi in processi di autoanalisi e autocritica, la sinistra men che meno.

domenica 10 aprile 2022

Casellati e Pasolini

Quella della signora Casellati non è una gaffe. Una gaffe la rimedi, ti accorgi di averla fatta e la correggi lì per lì. Ma chiamare Pasolini Gian Paolo significa non conoscere il suo nome, cioè non sapere chi è, e il fatto che la seconda carica della Repubblica italiana non conosca uno dei più grandi intellettuali (romanziere, saggista, poeta, regista) che ha avuto il nostro paese, spiega come in modo migliore non si potrebbe perché il suddetto paese è messo come è messo.

Accenni di sensi di colpa


Poco fa, mentre camminavo da solo nel silenzio delle mie colline, pensavo che a volte mi sento un po' in colpa. È una sensazione fuggevole, che a tratti fa capolino e poi se ne va. Guardavo il panorama attorno a me e mi chiedevo: perché io posso camminare tranquillo e beato in mezzo alla natura ed altri no? Perché io posso uscire di casa senza preoccuparmi che qualcuno mi spari addosso, o che mi piova una bomba in testa, o che qualcuno distrugga la casa in cui abito o uccida i miei familiari e altri no?

Ho vissuto finora più di cinquant'anni, faccio un lavoro impegnativo e a tratti pesante ma sicuro, che probabilmente (mettiamoci una sospetta forma dubitativa, va') mi porterà alla pensione, se si escludono gli acciacchi tipici della mia età godo di buona salute, non sono ricco ma ho il sufficiente per vivere dignitosamente e oggi non è così scontato, ho una discreta quantità di tempo libero per suonare, leggere, scrivere, ho familiari anch'essi in salute a cui voglio bene e questo bene è contraccambiato, ho la fortuna di vivere in un angolo di mondo che, almeno fino ad oggi, ha conosciuto benessere e prosperità e non ha visto guerre da tre generazioni. In generale godo insomma di una certa serenità.

Poi, certo, magari mi lamento di mille cose ma sono quelle lamentele fisiologiche che fanno parte della nostra indole e che non riguardano problemi di sopravvivenza o salute o simili. Insomma, io camminavo e pensavo, guardando a tutto ciò che succede nel mondo, che a volte ci si sente (almeno per me è così) quasi in colpa a poter dire queste cose, che tutto va bene, che si gode di una certa serenità ecc. 

Forse, se fossi credente, ringrazierei il dio in cui credo per tutto quello che ho. Ma subito dopo averlo ringraziato gli chiederei perché io sì e tanti altri no. Perché io abbia tutto e un altro niente, perché io sia in salute mentre un altro viene colpito da una malattia grave che lo uccide a una età minore della mia - questa forma di palese ingiustizia è tra l'altro uno dei (tanti) motivi per cui non credo in alcun dio. 

Capitemi bene. Non vorrei dare l'impressione di stare male in questo mio stare bene (perdonate il gioco sintattico), o non apprezzare ciò che ho, ma è uno stare bene che mi suscita un sacco di domande a cui non trovo risposta, e le domande a cui non trovo risposta a volte non mi fanno stare in pace.

Sulla libertà

Non è che in un post su un blog si possa discettare sul concetto di libertà, concetto smisurato e dalle molteplici sfaccettature, ma si può provare ad accennare qualcuna di queste sfaccettature. 

Noi siamo liberi? Formalmente sì, o almeno amiamo pensare che sia così, ma molto dipende dal piano su cui vogliamo porre la questione. Rispetto a un carcerato, ad esempio, è ovvio che siamo liberi. Possiamo uscire di casa a qualsiasi ora del giorno o della notte, possiamo scegliere se uscire a piedi, in bicicletta, in macchina. Abbiamo la libertà di scegliere se andare in spiaggia, oppure in collina ecc. Questa è senz'altro una forma di libertà. Ma ci sono altre forme di libertà che ci sono negate, o che comunque sono negate alla maggior parte di noi. Siamo liberi, ad esempio, di non andare a lavorare? No, non lo siamo (non mi riferisco, ovviamente, a chi per i motivi più vari e fortunati può permettersi di non andarci), perché ci muoviamo all'interno di una società strutturata in modo che sia possibile viverci solo possedendo un reddito. Quindi, da questo punto di vista, non si è liberi di poter trascorrere le giornate facendo solo ciò che piacerebbe fare (andare a passeggio, leggere, scrivere, viaggiare ecc.). Qui è facile vedere come il concetto di libertà si ridimensioni alquanto.

Ma c'è un altro aspetto della libertà abbastanza interessante a cui in genere non si pensa molto: la relazione tra libertà e identità, cioè tra libertà e carattere o modo di essere, di cui parla Galimberti nei pochi minuti del breve video qui sotto. 

In sostanza la questione è la seguente: Siamo liberi di non essere ciò che siamo? Galimberti porta un esempio. Un giorno Sartre andò in montagna per una escursione, cadde e si ruppe una gamba. Convalescente in ospedale, andò un giorno a trovarlo Maurice Merleau-Ponty, filosofo e suo grande amico, il quale gli chiese perché per andare a fare una escursione in montagna non si fosse fatto accompagnare da una guida. Risposta di Sartre: "Maurice, secondo te io sono uno che va in montagna con una guida?"

Con questa risposta Sartre ha voluto dire che, col suo carattere, per come è fatto lui, per il suo modo di essere, non sarebbe mai andato in montagna con una guida. La sua identità gli nega la libertà farlo. E non è una forma di limitazione della libertà (in questo caso della libertà di farsi accompagnare da una guida) anche questa?

In questo caso, quindi, la libertà si ridimensiona e si adegua al modo di essere, e molto difficilmente può essere diversamente. Quando succede, subentra la sorpresa, lo sconcerto. Quella sorpresa e quello sconcerto che ci fanno dire: "Questa cosa da lui non me la sarei mai aspettata", in riferimento a un comportamento, un atteggiamento, una frase detta da una persona da cui, in virtù di come la conosciamo, mai ce la saremmo aspettata.

Quindi, forse, non siamo liberi; diciamo però che ci piace un sacco pensarlo.


sabato 9 aprile 2022

Interconnessioni

La FAO stima che la guerra in Ucraina farà aumentare di oltre dieci milioni le persone che nei paesi più poveri del mondo soffrono la fame. La guerra ha anche - e questo lo proviamo sulla nostra pelle - effetti economici che impattano sulla vita di tutti i giorni (aumenti dei prezzi di vari beni: pasta, pane, benzina, con effetti a catena su ogni aspetto economico del quotidiano come tassi di interesse delle banche, mutui, assicurazioni ecc.). Questo succede perché viviamo oggi in un mondo economicamente interconnesso, per cui un evento che si manifesta in un determinato luogo del pianeta ha effetti a cascata su realtà anche lontanissime. 

È, se vogliamo, un po' la trasposizione in ambito geopolitico del famoso effetto farfalla postulato nel 1972 dal matematico Edward Lorenz, secondo cui una farfalla che sbatte le ali in Brasile provoca un uragano in Texas. È la globalizzazione, bellezza, verrebbe da dire, e che piaccia o non piaccia indietro non si torna. Per questo a me viene sempre un po' da sorridere quando sento parlare i sovranisti.

venerdì 8 aprile 2022

Tra il gas, l'aria condizionata e i sacrifici

Quella di Draghi ("Preferiamo la pace o l'aria condizionata?") è ovviamente una domanda retorica, cioè quel tipo di interrogazione che non viene formulata per ottenere informazioni ma che implica una risposta predeterminata. Si può ovviamente discutere se un capo di governo (ritenuto autorevole e serio) che utilizzi una simile semplificazione di stampo populista, come se fosse un Renzi o un Salvini qualsiasi, ne esca bene o male, ma al di là di questo a me ha colpito un'altra cosa.

Parlandone stamattina con alcuni conoscenti, mi è rimasto impresso questo commento di uno di essi: "Draghi non può chiederci altri sacrifici dopo due anni di pandemia", e questa frase mi ha fatto pensare alla nostra generale allergia al concetto di sacrificio. 

In genere si tende a dare per scontato che il livello di benessere raggiunto dalla nostra civiltà sia qualcosa di definitivamente acquisito, che non può essere messo in discussione in alcun modo e che col passare del tempo crescerà sempre di più. Ma non è così, purtroppo. Economisti e studiosi vanno da tempo ripetendo, nell'indifferenza generale, che il nostro tenore di vita, il tenore di vita di noi occidentali, non è più sostenibile. La nostra piccola parte di mondo per tenere questo tenore di vita consuma infatti l'80% delle risorse del pianeta, e un sistema così sballato non potrà durare ancora a lungo.

La soluzione, che ci piaccia o no (e a noi non piace, ovviamente), sarà inevitabilmente una decrescita, che tradotto significa sacrifici, cioè rinunciare a qualcuna delle nostre infinite comodità, di cui l'aria condizionata di cui parla Draghi sarà solo quella minore. Una bestemmia, oggi, naturalmente, perché dietro alle nostre comodità (automobili, telefonini, aria condizionata, acqua calda, lavatrici, lavastoviglie, industria alimentare, energia, trasporti ecc.) c'è un giro economico immenso, e la nostra civiltà si regge sull'economia. Se questa non funziona, c'è il collasso.

Noi, purtroppo, non siamo abituati a ragionare e a valutare le cose in termini globali ma locali, pensiamo che il nostro fortunato Occidente sia il centro del mondo, sia intoccabile, forte, grande, che fuori non ci sia nulla di rilevante e chi sta fuori si arrangi. Non è così. Siamo piccoli, siamo fragili e il sistema in cui viviamo è squilibratissimo. E i sistemi squilibrati non durano in eterno, prima o poi si riequilibrano, e quando lo fanno sono dolori.

Fratelli

Mercoledì sera, mentre eravamo a cena assieme a tutta la famiglia in occasione del mio compleanno, pensavo alla gigantesca differenza di carattere tra me e mio fratello. Io tranquillo, taciturno, introverso, riflessivo; un "orso", si potrebbe quasi dire. Lui casinaro, chiacchierone, estroverso, impulsivo; vitalità al suo parossismo. Quella vitalità che spesso gli invidio. Diversissimi per indole, temperamento, e anche un po' fisicamente. 

Eppure fratelli.

Fare ciao ciao con la manina

Mentre sto facendo esperienza, e trovando conferma in vari interventi autorevoli, del riscaldamento del pianeta e della scomparsa delle mezze stagioni, mi chiedo che reazioni avrà un giorno il mio nipotino, che non ha ancora due anni e mezzo, quando sentirà pronunciare la parola "primavera" o leggerà a scuola poesie che parlano dei primi languori autunnali. E da grande come reagirà ascoltando le Stagioni di Vivaldi? Forse lui vivrà in un altro mondo a cui sarà perfettamente abituato e non soffrirà della mancanza della primavera, vedendo le bacche sbocciare per sbaglio in inverni caldissimi. In fondo anch'io da piccolo non avevo esperienza dei dinosauri eppure sono riuscito a immaginarmeli. Forse la primavera è una nostalgia da persona attempata, come le notti passate nei rifugi antiaereo a giocare a nascondino. 

A questo bambino che cresce parrà allora naturale vivere in un mondo dove il bene primario (ormai più importante del sesso e del danaro) sarà la visibilità. Dove per essere riconosciuti dagli altri e non vegetare in uno spaventoso e insopportabile anonimato si farà di tutto per apparire, in televisione o in quei canali che a quell'epoca avranno sostituito la televisione. Dove sempre più madri integerrime saranno pronte a raccontare i più sordidi affari di famiglia a una trasmissione strappalacrime pur di essere riconosciute il giorno dopo al supermercato e rilasciare autografi, e le ragazzine (come già accade oggi) diranno che vogliono fare l'attrice, non per recitare Shakespeare o almeno cantare come Joséphine Baker vestita di sole banane sul palcoscenico delle Folies Bergère, e nemmeno per sgambettare con grazia come le veline di un tempo andato, bensì per essere promosse vallette di telequiz, pura apparenza senz'arte alcuna di sostegno.

Qualcuno spiegherà allora a questo bambino (forse a scuola, insieme ai re di Roma e alla caduta di Berlusconi, o in film storici intitolati C'era una volta la Fiat che i Cahiers du cinéma chiameranno "prolet", sul modello del "peplos") che sin dall'antichità gli esseri umani hanno desiderato essere riconosciuti da coloro che li attorniavano. E alcuni si ingegnavano di essere amabili compagnoni le sere all'osteria, altri di eccellere nel calcio o nel tiro a segno alle feste patronali, o di raccontare di aver preso all'amo un pesce lungo così. E le ragazze volevano essere note per il cappellino civettuolo che portavano la domenica andando alla messa, e le nonne per essere la migliore cuoca o sarta del villaggio. E guai se non fosse stato così, perché l'essere umano, per sapere chi è, ha bisogno dello sguardo dell'Altro, e tanto meglio si riconosce (o crede di riconoscersi) quanto più l'Altro l'ama e l'ammira - e se invece di un solo Altro che ne sono cento o mille, o diecimila, tanto meglio, e ci si sente completamente realizzati.

E quindi in un'epoca di grandi e continui spostamenti, dove a ciascuno viene a mancare il villaggio nativo e il senso delle radici, e l'Altro è qualcuno con cui comunichi a distanza via Internet, parrà naturale che gli esseri umani cerchino il riconoscimento per altre vie, e alla piazza del villaggio si sostituisca la platea quasi planetaria della trasmissione tv o ciò che l'avrà sostituita. 

Quello che però, forse, neppure i maestri di scuola o chi per loro riusciranno a ricordare, sarà che in quel tempo antico vigeva una distinzione molto rigida tra essere famosi e essere chiacchierati. Tutti volevano diventare famosi come il miglior arciere o la più brava ballerina, ma nessuno voleva essere chiacchierato come il più cornificato del paese, l'impotente acclarato, la puttana irrispettosa. Caso mai la puttana cercava di fare credere di essere ballerina e l'impotente raccontava mentendo di avventure sessuali pantagrueliche. Nel mondo del futuro (se assomiglierà a quello che già oggi si configura) questa distinzione sarà scomparsa: pur di essere "visti" e "parlati" si sarà pronti a fare di tutto. Non ci sarà differenza tra la fama del grande immunologo e quella del giovanotto che è riuscito ad ammazzare la mamma a colpi di scure, tra il grande amante e chi avrà vinto la gara per il membro virile più corto, tra chi avrà fondato un lebbrosario nell'Africa centrale e chi sarà riuscito a meglio frodare il fisco. Tutto farà brodo, pur di apparire ed essere riconosciuti il giorno dopo dal droghiere (o dal banchiere).

Se a qualcuno posso parere apocalittico, chiedo che cosa vuol dire già sin d'ora (anzi da decenni) mettersi dietro al tizio col microfono per essere visti e fare ciao ciao con la manina, o andare dalla Zingara sicuri di non sapere neppure che una rondine non fa primavera. Che importa, saranno famosi. Ma non sono apocalittico. Forse il bambino di cui parlo sarà adepto di qualche nuova setta il cui fine sia il nascondimento dal mondo, l'esilio nel deserto, il seppellimento nel chiostro, l'orgoglio del silenzio. In fondo è già accaduto, al tramonto di un'epoca in cui gli imperatori avevano iniziato a fare senatore il proprio cavallo.

Umberto Eco, Fare ciao ciao con la manina, 2002.

giovedì 7 aprile 2022

Troll

Ogni tanto si fa vivo da queste parti qualche troll, che lascia commenti idioti e provocatori tipo questo. Naturalmente sempre sotto anonimato. Che un povero blog di campagna come il mio, con pochi lettori e ancora meno commentatori, riesca a suscitare l'interesse di qualche provocatore è una cosa abbastanza curiosa, tutto sommato. 

Assodato che replicare a un provocatore è una cosa a cui non penso neanche lontanamente, sorge il problema sul da farsi. Cancellare i commenti? Ignorarli e passare oltre? Qualche blogger che ha o ha avuto lo stesso problema come mi suggerirebbe di procedere?

Si vuole capire?


La più autorevole rivista italiana di geopolitica, Limes, è alla terza ristampa in un mese (numero di marzo). Limes a parte, mi sono accorto che c'è un proliferare di libri e riviste specializzate che trattano di geopolitica. Segno che le persone non vanno in edicola solo per comprare Novella 2000, ma anche per cercare di capire, approfondire. Mi sembra molto bella questa cosa.

mercoledì 6 aprile 2022

42 (52)


E niente. Oggi per me sono 42 anni.

(In realtà sono 52, ma me ne sento addosso dieci di meno, per cui va bene 42.) :-)

martedì 5 aprile 2022

Strategia della tensione

Quella che vedete qui sopra è la prima pagina di Libero di questa mattina. Si notano due cose: non c'è una riga sulla sentenza della Cassazione relativa alla vicenda di Stefano Cucchi (ogni altro quotidiano, perfino il Giornale, ne ha parlato); c'è un titolone a caratteri cubitali in cui si ipotizza che un ordigno atomico russo potrebbe essere lanciato sull'Italia.

L'omissione di qualsiasi riferimento alla vicenda Cucchi non stupisce. Da che mondo è mondo le notizie non conformi alla linea vengono sempre occultate dalla stampa, almeno dalla prima pagina, e generalmente relegate in nicchie poco visibili all'interno del giornale, e non lo fa solo Libero, anche se qui questa consuetudine raggiunge da sempre il parossismo.

Il titolone sulla possibilità che un ordigno nucleare russo piova sulle nostre teste, invece, mi pare appartenga a quell'ormai consolidata maniera di fare giornalismo che a me è venuto in mente di chiamare come l'omonimo, infausto periodo storico italiano che ha contraddistinto gli anni Settanta del secolo scorso. 

Eccessi di Libero a parte, avrete infatti probabilmente notato come l'informazione, in generale, tenda a descrivere la guerra in Ucraina creando un filo ininterrotto di tensione, di inquietudine costante. Ogni giorno, ogni prima pagina di ogni quotidiano riporta a caratteri cubitali la notizia di una strage, di una carneficina, di un'imboscata: una volta in un teatro, un'altra volta in un centro commerciale, un'altra volta ancora in un quartiere di una città o in qualsiasi altro luogo. Ogni giorno viene enfatizzato un fatto truce che fa leva sulla nostra emotività e che dà il la all'indignazione o alla pietà o al dolore o a tutti questi sentimenti insieme. E alla fine si crea quel meccanismo psicologico che fa nascere nel lettore l'aspettativa relativamente a quale sarà il fatto cruento del giorno dopo.

Ora, non vorrei essere frainteso: non sto dicendo, né mi sognerei mai di pensarlo, che ciò che sta succedendo in Ucraina non sia una tragedia di dimensioni immani e non sia di una gravità inaudita, ma mi chiedo: qual è l'utilità di questa condotta giornalistica? Essere costantemente tenuti sotto "tensione", essere continuamente bombardati dalla truculenza e dall'orrore è un aiuto a comprendere meglio ciò che sta accadendo - e si tratta di vicende caratterizzate da enorme complessità - o ne è un ostacolo?

A me sembra che sia un ostacolo. Io credo che sia molto più difficile tentare di approcciarsi con una certa tranquillità ai fatti, provare ad approfondire, a farsi un'idea ponderata se ogni ora si viene sommersi da morti, sangue, bombe. Di nuovo: non sto dicendo che di queste cose non si debba parlare, dico solo che andrebbero ridimensionate e collocate gerarchicamente in posizioni più defilate, dando invece la priorità (i famosi titoloni) all'evolversi delle dinamiche politiche, militari e geografiche del conflitto.

Ma conosco l'obiezione: se non si mettono le truculenze in prima pagina, se non si fanno i titoloni sangue-morti-bombe, chi li compra i giornali? E, sul web, chi clicca sui titoloni generando introiti? Quante copie in più avrà venduto, Libero, con la paura irrazionale e irrealistica (e anche sciacalla, diciamolo) generata da quel titolo? E quanti clic in più avrà totalizzato sul suo sito? Non si sa. Si sa solo a quanto poco è servito per capire qualcosa in più e tentare di fare chiarezza.

Fenomenologia di Mike Bongiorno

Chi ha grosso modo la mia età è probabile che abbia conosciuto Mike Bongiorno, il cosiddetto re dei telequiz che ha imperversato tra Rai e Mediaset per oltre quarant'anni, tanto da diventare fenomeno di costume. Umberto Eco, tra le infinite cose di cui ha scritto, si è occupato anche di comunicazione e di mass media, e quindi anche di lui, pubblicando nel lontano 1961 un articolo intitolato appunto Fenomenologia di Mike Bongiorno. Qui Eco traccia un profilo del presentatore ma anche della società a lui contemporanea, perché Mike Bongiorno, in fondo, non è stato che lo specchio di quella società, con i suoi difetti e i suoi pregi. 

Mi sono imbattuto in questo articolo mentre leggevo una raccolta di scritti di Eco intitolata Costumi di casa. Lo ripubblico qui di seguito perché credo meriti sicuramente una lettura. 

Mentre lo leggevo mi chiedevo, sorridendo, se Mike Bongiorno l'abbia mai letto. Chissà... :-)


* * *


L'uomo circuito dai mass media è in fondo, fra tutti i suoi simili, il più rispettato: non gli si chiede mai di diventare che ciò che egli è già. In altre parole gli vengono provocati desideri studiati sulla falsariga delle sue tendenze. Tuttavia, poichè uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l'evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e i quali si possa stabilire una tensione. Per togliergli ogni responsabilità si provvede però a fare sì che questi ideali siano di fatto irraggiungibili, in modo che la tensione si risolva in una proiezione e non in una serie di operazioni effettive volte a modificare lo stato delle cose. Insomma, gli si chiede di diventare un uomo con il frigorifero e un televisore da 21 pollici, e cioè gli si chiede di rimanere com'è aggiungendo agli oggetti che possiede un frigorifero e un televisore; in compenso gli si propone come ideale Kirk Douglas o Superman. L'ideale di consumatore di mass media è un superuomo che egli non pretenderà mai di diventare, ma che si diletta a impersonare fantasticamente, come si indossa per alcuni minuti davanti a uno specchio un abito altrui, senza neppure pensare di possederlo un giorno.

La situazione nuova in cui si pone al riguardo la televisione è questa: la tv non offre, come ideale in cui immedesimarsi, il superman, ma l'everyman. La tv presenta come ideale l'uomo assolutamente medio. A teatro Juliette Gréco appare sul palcoscenico e subito crea un mito e fonda un culto; Joséphine Baker scatena rituali idolatrici e dà il nome a un'epoca. In tv appare a più riprese il volto magico di Juliette Gréco, ma il mito non nasce neppure; l'idolo non è costei, ma l'annunciatrice, e tra le annunciatrici la più amata e più famosa sarà proprio quella che meglio rappresenta i caratteri medi: bellezza modesta, sex appeal limitato, gusto discutibile, una certa casalinga inespressività.

Ora, nel campo dei fenomeni quantitativi, la media rappresenta appunto un termine di mezzo, e per chi non vi si è ancora uniformato, essa rappresenta un traguardo. Se, secondo la nota buotade, la statistica è quella scienza per cui se giornalmente un uomo mangia due polli e un altro nessuno, quei due uomini hanno mangiato un pollo ciascuno, per l'uomo che non ha mangiato, la meta di un pollo al giorno è qualcosa di positivo cui aspirare. Invece, nel campo dei fenomeni qualitativi, il livellamento alla media corrisponde al livellamento a zero. Un uomo che possieda tutte le virtù morali e intellettuali in grado medio, si trova immediatamente a un livello minimale di evoluzione. La "medietà" aristotelica è equilibro nell'esercizio delle proprie passioni, retto dalla virtù discernitrice della "prudenza". Mentre nutrire passioni in grado medio e avere una media prudenza significa essere un povero campione di umanità.

Il caso più vistoso di riduzione del superman all'everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. Idolatrato da milioni di persone, quest'uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio a cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita (questa è l'unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti.

Per capire questo straordinario potere di Mike Bongiorno occorrerà procedere a un'analisi dei suoi comportamenti, a una vera e propria "Fenomenologia di Mike Bongiorno", dove, si intende, con questo nome è indicato non l'uomo, ma il personaggio.

Mike Bongiorno non è particolarmente bello, atletico, coraggioso, intelligente. Rappresenta, biologicamente parlando, un grado modesto di adattamento all'ambiente. L'amore isterico tributatogli dalle teenager va attribuito in parte al complesso paterno che egli è capace di risvegliare in una giovinetta, in parte alla prospettiva che egli lascia intravvedere di un amante ideale, sottomesso e fragile, dolce e cortese.

Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non sente il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui naturali tendenze all'apatia e alla pigrizia mentale. Pone gran cura nel non impressionare lo spettatore, non solo mostrandosi all'oscuro dei fatti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla. 

In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che sa. Di costui pone tuttavia in luce le qualità di applicazione manuale, la memoria, la metodologia ovvia ed elementare: si diventa colti leggendo molti libri e trattenendo quello che dicono. Non lo sfiora minimamente il sospetto di una funzione critica e creativa della cultura. Di essa ha un criterio meramente quantitativo. 

Mike Bongiorno professa una fiducia e una stima illimitata verso l'esperto; un professore è un dotto; rappresenta la cultura autorizzata. È il tecnico del ramo. Gli si demanda la questione, per competenza. L'ammirazione per la cultura tuttavia sopraggiunge quando, in base alla cultura, si viene a guadagnare denaro. Allora si scopre che la cultura serve a qualcosa. L'uomo mediocre rifiuta di imparare ma si propone di fare studiare il figlio.

Mike Bongiorno ha una nozione piccolo borghese del denaro e del suo valore ("Pensi, già centomila lire: è una bella sommetta!"). Mike Bongiorno anticipa quindi, sul concorrente, le impietose riflessioni che lo spettatore sarà portato a fare: "Chissà come sarà contento di tutti quei soldi, lei che è sempre vissuto con uno stipendio modesto! Ha mai avuto così tanti soldi tra le mani?"

Mike Bongiorno, come i bambini, conosce le persone per categorie e le appella con comica deferenza (il bambino dice: "Scusi, signora guardia...") usando tuttavia sempre la qualifica più volgare e corrente, spesso dispregiativa: "Signor spazzino, signor contadino." Mike Bongiorno accetta tutti i miti della società in cui vive: alla signora Balbiano d'Aramengo bacia la mano e dice che lo fa perché si tratta di una contessa (sic).

Oltre ai miti accetta della società le convenzioni. È paterno e condiscendente con gli umili, deferente con le persone socialmente qualificate. Elargendo denaro, è istintivamente portato a pensare, senza esprimerlo chiaramente, più in termini di elemosina che di guadagno. Mostra di credere che, nella dialettica delle classi, l'unico mezzo di ascesa sia rappresentato dalla provvidenza (che può occasionalmente assumere il volto della Televisione).

Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione della sintassi. Evita i pronomi, ripetendo sempre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. Non si avventura mai in incisi o parentesi, non usa espressioni ellittiche, non allude, utilizza solo metafore ormai assorbite dal lessico comune. Il suo linguaggio è rigorosamente referenziale e farebbe la gioia di un neopositivista. Non è necessario fare alcuni sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all'occasione, potrebbe essere più facondo di lui. Non accetta l'idea che a una domanda possa esserci più di una risposta. Guarda con sospetto alle varianti. Nabucco e Nabuccodonosor non sono la stessa cosa; egli reagisce di fronte ai dati come un cervello elettronico, perché è fermamente convinto che A è uguale ad A e che tertium non datur. Aristotelico per difetto, la sua pedagogia è di conseguenza conservatrice, paternalistica, immobilistica. 

Mike Bongiorno è privo di senso dell'umorismo. Ride perché è contento della realtà. Gli sfugge la natura del paradosso; come gli viene proposto, lo ripete con aria divertita e scuote il capo, sottintendendo che l'interlocutore sia simpaticamente anormale; rifiuta di sospettare che dietro il paradosso si nasconda una verità, comunque non lo considera come veicolo autorizzato di opinione. 

Evita la polemica, anche su argomenti leciti. Non manca di informarsi sulle stranezze dello scibile (una nuova corrente di pittura, una disciplina astrusa... "Mi dica un po', si fa tanto parlare oggi di questo futurismo. Ma cos'è di preciso questo futurismo?"). Ricevuta la spiegazione, non tenta di approfondire la questione, ma lascia avvertire anzi il suo educato dissenso di benpensante. Rispetta comunque l'opinione dell'altro, non per proposito ideologico, ma per disinteresse. Di tutte le domande possibili su di un argomento sceglie quella che verrebbe per prima in mente a chiunque e che una metà degli spettatori scarterebbe subito perché troppo banale: "Cosa vuol rappresentare quel quadro?" "Come mai si è scelto un hobby così diverso dal suo lavoro?" "Com'è che viene in mente di occuparsi di filosofia?" 

Porta i cliché alle estreme conseguenze. Una ragazza educata dalla suore è virtuosa, una ragazza con le calze colorate e la coda di cavallo è "bruciata". Chiede alla prima se lei, che è una ragazza così perbene, desidererebbe diventare come l'altra; fattogli notare che la contrapposizione è offensiva, consola la seconda ragazza mettendo in risalto la sua superiorità fisica e umiliando l'educanda. In questo vertiginoso gioco di gaffe non tenta neppure di usare perifrasi: la perifrasi è già una agudeza, e le agudezas appartengono a un ciclo vichiano cui Buongiorno è estraneo. Per lui, lo si è detto, ogni cosa ha un nome e uno solo, l'artificio retorico è una sofisticazione. In fondo la gaffe nasce sempre da un atto di sincerità non mascherata; quando la sincerità è voluta non si ha gaffe ma sfida e provocazione; la gaffe (in cui Buongiorno eccelle, a detta di critici e pubblico) nasce proprio quando si è sinceri per sbaglio e per sconsideratezza. Quanto più è mediocre, l'uomo mediocre è maldestro. Mike Bongiorno lo conforta portando la gaffe a dignità di figura retorica, nell'ambito di una etichetta omologata dall'ente trasmittente e dalla nazione in ascolto.

Mike Bongiorno gioisce sinceramente col vincitore perché onora il successo. Cortesemente disinteressato al perdente, si commuove se questi versa in gravi condizioni e si fa promotore di una gara di beneficenza, finita la quale si manifesta pago e ne convince il pubblico; indi trasvola ad altre cure confortato sull'esistenza del migliore dei mondi possibili. Egli ignora la dimensione tragica della vita. Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi d'inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti.

Stefano Cucchi

Alla fine la tragica vicenda di Stefano Cucchi, di cui ho ripetutamente scritto in passato, si è chiusa, con la Cassazione che ha messo la parola fine a 12 anni di insabbiamenti, tentativi di depistaggi e tutto il resto, riconoscendo che il ragioniere romano è morto perché è stato ucciso. Sono soddisfatto, ma è una soddisfazione grama che si scontra con l'assurdità di tutta la vicenda.

Sono contento soprattutto per la sorella Ilaria, che in questi anni si è battuta con l'ostinazione e la "tigna" di chi sa la verità e vuole che questa verità venga riconosciuta e certificata. 

Non dev'essere stato facile per lei e non so quanti sarebbero stati in grado di fare lo stesso. Ha avuto contro parte della politica, della stampa, dell'opinione pubblica. Ci ricordiamo tutti le dichiarazioni dei vari Salvini, Giovanardi e compagnia cantante, così come tutti ricordiamo i titoli di Libero, Giornale e altri nel trattare la vicenda. 

Alla fine la verità è stata certificata, e nessuno di quelli che in questi anni hanno vomitato odio contro la vittima e i suoi familiari si vergognerà, perché viviamo in un paese dove tutto passa e tutto si dimentica in fretta, molto in fretta.

lunedì 4 aprile 2022

Vuoi la cittadinanza? Devi conoscere le sagre

Fratelli d'Italia e Lega stanno sommergendo con centinaia di emendamenti la legge sullo ius scholae, in discussione in questi giorni alla Camera. Si tratta della legge (ex ius soli) che regola la concessione della cittadinanza italiana ai minori stranieri. Nello specifico, il testo di legge in discussione prevede il diritto di acquisire la cittadinanza italiana alle seguenti condizioni: essere nati in Italia o essere arrivati da un altro paese a patto di non avere più di 12 anni; aver completato un ciclo di studi di almeno cinque anni.

Le centinaia di emendamenti presentati hanno l'evidente scopo di affossare la legge. Fin qui niente di nuovo: la destra è storicamente e antropologicamente sempre stata sinonimo di negazione di diritti, quindi non stupisce questo accanimento, accanimento che tra l'altro non ha alcuna giustificazione che non sia radicata nel pregiudizio e nel mero razzismo. 

Ma la cosa che stupisce e che per certi versi fa vergognare è il contenuto di molti di questi emendamenti, che descrivono le "condizioni" che si vorrebbero imporre per vedersi riconosciuti ufficialmente come italiani. Tra queste (ne parla Wired qui) la perfetta conoscenza delle sagre religiose e delle feste di santi e patroni italiani. Non solo: "dovranno padroneggiare con la massima competenza storia e tradizioni italiane dall’antichità a oggi, snocciolare le principali festività del paese, dimostrarsi competenti nella musica, nei costumi enogastronomici e nell’immancabile presepe. Praticamente una laurea in etnoantropologia della penisola italica."

Ecco, adesso pensate a un ragazzino di dieci anni che si presenta alla commissione che dovrà valutare se sia "degno" o meno di essere italiano e che si sente fare domande sulla sagra degli asparagi di Monte Colombo o la fiera del tartufo di sant'Agata Feltria, e provate a non incazzarvi.

Naturalmente si dà per scontato - una delle condizioni è la conoscenza storica di tutto ciò che è successo nella penisola italica dall'antichità a oggi - che i leghisti che hanno scritto tali emendamenti siano tutti degli Alessandro Barbero e mastichino di storia allo stesso modo in cui masticano salsicce e cipolle ai raduni della Lega.

Quando leggo questa cose non solo m'incazzo, ma mi vergogno di essere italiano e mi vergogno del fatto che chi appoggia queste porcherie razziste abbia la mia stessa cittadinanza, porcherie scritte oltretutto dagli adepti di un partito capeggiato fino a pochi anni fa da un figuro condannato per vilipendio alla bandiera dopo aver affermato che lui col tricolore ci si puliva il culo.

A volte, e non scherzo, mi vergogno di vivere in questo paese.

domenica 3 aprile 2022

Canzone delle domande consuete

Ci sono ancora delle stazioni radio che passano certi capolavori. Mentre la ascoltavo pensavo che si tratta, probabilmente, della più bella canzone d'amore che sia mai stata scritta. Niente banalità tipo la sua maglietta fina o splendi sole domattina come non hai fatto ancora. Ma amore che è dubbio, lacerazione, mancanza, domande, poesia. Una canzone che solo Guccini poteva scrivere.

Buona domenica a chi passerà di qui.


sabato 2 aprile 2022

Storia di Gordon Pym



Comprai questo libro molto tempo fa in una bancarella di libri usati qui a Santarcangelo e poi me ne dimenticai. L'ho ritrovato casualmente giovedì pomeriggio mentre cercavo, nell'incredibile casino che regna nella mia libreria, qualcosa da leggere dopo il libro sul disastro di Chernobyl e, incuriosito, ho cominciato a leggerlo. Di Poe avevo già letto altro in passato, ma questo, che è l'unico romanzo pubblicato in vita dallo scrittore, mi mancava. 

Appartiene al genere definito horror psicologico e devo ammettere, nonostante io sia da sempre un estimatore di King e quindi abituato a certe "crudezze" letterarie, che in molti punti mi ha parecchio impressionato. 

Il romanzo, pubblicato nel 1838, narra le vicende appunto di Gordon Pym, un giovane amante dell'avventura che, clandestinamente e all'insaputa della famiglia, si imbarca sulla nave baleniera Grampus che parte da Nantucket per una spedizione di pesca e commerci. Durante il viaggio al giovane Gordon capitano disavventure di ogni tipo: un ammutinamento dell'equipaggio, una tempesta fortissima che riduce il brigantino a un relitto ingovernabile, l'incontro con una nave fantasma che se ne va alla deriva piena di cadaveri, poi il salvataggio da parte di un'altra nave, la Jane Guy, in rotta verso il Polo Sud alla ricerca di terre inesplorate, che trarrà in salvo gli unici due superstiti, Gordon e Arthur, ormai allo stremo e sopravvissuti solo dopo essersi cibati del terzo superstite, ucciso allo scopo dopo un drammatico sorteggio.

Le interazioni tra i personaggi e la descrizione accurata delle psicologie e dei loro stati d'animo, specie nei momenti più drammatici del racconto, sono alcuni dei punti di forza del romanzo. Romanzo incompiuto che sarà proseguito idealmente da Jules Verne quando pubblicherà il romanzo La sfinge dei ghiacci, pubblicato nel 1897.