Mi è piaciuto
questo post di Galatea. Commuoversi per fatti tragici che non ci toccano da vicino (per ora) non è così scontato, specie in una società come la nostra dove il metro dell'utilità (serve, non serve) viene spesso applicato anche ai sentimenti. Commuoversi davanti a un telegiornale non fa finire una guerra, certo, ma autorizza a immaginare che nella naturale ambivalenza male/bene (capacità di fare il male e capacità di provare dolore per il male inflitto da uomini ad altri uomini) sia prevalente la seconda.
Non c'è da "vergognarsi" nel commuoversi e piangere, anzi se l'umanità provasse empatia indipendentemente dalla distanza fisica e affettiva, il mondo sarebbe migliore. E non lo dico io per primo, dato che pensieri del genere li si trova tanto in Hermann Hesse quanto nella fantascienza utopica di Star Trek.
RispondiEliminaAndrea, se passi dal mio blog oggi c'è una canzone che dovrebbe essere di tuo gusto e interesse. 😉
Sono al lavoro, ma appena ho un attimo passo sicuramente :-)
EliminaDici giusto, ci pensavo proprio ieri.
RispondiEliminaTutto è iniziato con Alfredino Rampi e da allora non ci siamo più staccati dalla tv fino a diventare normale e quindi ad anestetizzarci per dovuta difesa personale. E ormai nella totale indifferenza delle guerre che ci fanno da contorno a cena e a pranzo, dovrebbe farci riflettere se siamo davvero in grado di capire tale sofferenza. Elisa
Il problema è che il flusso costante e ininterrotto di informazioni e di stimoli tende a creare assuefazione, e alla fine le tragedie diventano routine e normalità, notizie come le altre da inserire tra il meteo e le oscillazioni di borsa.
EliminaBasta guardare il covid, ad esempio. Abbiamo ancora centinaia di morti a settimana, ma ormai non fanno più notizia, sono diventati quasi normale amministrazione.
Questa è l'empatia, il riuscire a sentire nella propria pelle il dolore dell'altro.
RispondiEliminasinforosa
Si, è così. Anche quando è un dolore lontano che apparentemente non ci tocca.
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