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giovedì 29 aprile 2021
King e Agostino
L'era della suscettibilità
Ho appena terminato questo gustosissimo saggio di Guia Soncini, uscito per i tipi di Marsilio. Il libro è sostanzialmente un atto di accusa e di ribellione contro gli eccessi del cosiddetto politically correct e la dittatura degli offesi in modalità permanente.
Parallelamente alla nascita e al proliferare dei social network si è diffusa quella che viene definita "cancel culture", ossia la rimozione di pensieri e scritti, vergati appunto sui social anche da personaggi pubblici (politici, artisti, uomini di cultura ecc.), perché tali scritti hanno urtato la sensibilità di qualcuno. Il qualcuno in questione, poi, col suo bel cancelletto (#) seguito dal motivo dell'indignazione ha radunato masse di ugualmente indignati che hanno portato il malcapitato autore dell'avventato pensiero a profondersi in tentativi di spiegazione oppure - azione molto più veloce e meno dispendiosa in termini di energie - a rimuovere direttamente lo scritto in questione.
Nel libro, Guia Soncini elenca numerosissimi esempi: Cesare Cremonini che impone alla sua governante moldava il nome Emilia in omaggio alla sua terra, provocando le reazioni indignate dell'internet tutta; Antonella Clerici che nel suo Portobello tiene legato il povero pappagallo al trespolo invece di lasciarlo libero di scorrazzare per lo studio, provocando le reazioni degli animalisti e via di questo passo.
Ma la "cancel culture" non agisce solo nell'ambito della contemporaneità, si sposta anche nel passato, ad esempio obbligando la Disney a ripubblicare alcuni suoi film cartoni animati degli anni Settanta o Ottanta mondati di certe scene o certi dialoghi che oggi, nell'era del politically correct, potrebbero risultare offensivi per qualcuno; oppure obbligando HBO a rimuovere Via col vento dalla sua piattaforma perché troppo pieno di pregiudizi etnici e razziali e via di questo passo.
Ha controindicazioni questo eccesso indiscriminato di politically correct? Sì, perfettamente evidenziate nella domanda cardine che si pone la giornalista: "Quante cose ci stiamo perdendo? Quanti romanzi, quante canzoni, quanti film vengono lasciati tra le idee incompiute perché l’autore poi non vuole passare le giornate a chiarire equivoci?"
Domanda a cui sarebbe interessante avere risposta dagli offesi in modalità permanente.
mercoledì 28 aprile 2021
L'obolo per l'"informazione"
domenica 25 aprile 2021
Sulla "divisività" del 25 aprile
Ci portiamo dietro da circa una settantina d'anni quella che da qualche tempo viene chiamata "divisività" del 25 aprile.
Ogni anno, cioè, invece di celebrare in maniera unita la festa della Liberazione, ci lasciamo andare a distinguo, divisioni, defezioni, litigi più o meno verbali. Salvini, ad esempio, ogni volta si inventa una iniziativa alternativa o un pretesto per non unirsi alla ricorrenza o comunque per marcare la sua distanza da essa, cosa che naturalmente fanno assieme a lui moltissimi esponenti della destra (ho citato Salvini solo perché è il più noto tra questi).
Questa divisività affonda le sue radici principalmente nella storia ma, soprattutto, nell'ideologia/partigianeria politica, retaggio della divaricazione tra cattolici e comunisti nel primo dopoguerra. Chi fosse interessato a capirne di più, in questo video il sempre ottimo Paolo Mieli riesce a spiegare le ragioni di questa assurda conflittualità in maniera efficace in soli sette minuti.
Per quanto riguarda Salvini e, in generale, tutti quelli che per qualsiasi motivo non ritengono di dovere unirsi a questa ricorrenza, linko qui di seguito questo brevissimo intervento del sempre grande Alessandro Barbero in cui il famoso storico spiega qual è il senso di questa festa e dove, alla fine, si chiede se veramente chi non la celebra avrebbe preferito che le cose fossero andate diversamente da come sono andate.
sabato 24 aprile 2021
Quanta benzina c'è?
C'entra l'economia
lunedì 19 aprile 2021
A nome nostro
sabato 17 aprile 2021
Maria Bassi
mercoledì 14 aprile 2021
Vaccino e trombosi
lunedì 12 aprile 2021
L'altro principe Filippo
Mentre lentamente comincia a scemare e a ritirarsi lo tsunami mediatico generato dalla dipartita di Filippo di Edimburgo, c'è chi, andando contro corrente rispetto al profluvio di incensamenti della sua persona da parte dell'informazione mainstream, racconta anche i tratti della sua storia e della sua vita che tutti hanno accuratamente evitato di menzionare. A tal proposito, un esaustivo post l'ha vergato il sempre ottimo Diciottobrumaio qui.
Vecchi amici
sabato 10 aprile 2021
Figli sì o figli no?
Il tema è delicato, naturalmente, perché va a toccare la sfera della soggettività, dell'identità, dei valori e anche della visione della vita e del retaggio culturale che è proprio di ogni persona, aspetti sui quali io non mi sogno neppure di mettere becco. In linea generale, ed è abbastanza ovvio che sia così, chi ha figli tende a considerare inconcepibile l'idea che si possa non averne; chi invece non ne ha (qui mi riferisco ovviamente a chi non ne ha per libera scelta) ritiene che la vita abbia comunque perfettamente senso e pari dignità di chi ne ha.
Ammesso che la vita abbia un senso (la questione meriterebbe riflessioni a parte, quindi lascio stare), io tendo a trovarmi in sintonia con chi ritiene che non siano i figli a darglielo, che non sia l'essere madre (o padre, il discorso ha una sua plausibilità anche per gli uomini) a dare alla vita patente di completezza. Il senso che ogni persona dà alla propria vita credo sia definito da ciò che ognuno sente liberamente di voler fare, da ciò che riesce a realizzare, dai comportamenti che decide di attuare come riflesso delle proprie convinzioni e idee.
Alla luce di questo, mi riesce estremamente difficile comprendere perché una vita senza figli non debba avere senso o non possa essere completa, e tendo, correndo naturalmente il rischio di sbagliare, a pensare che questa idea sia niente di più che il lascito di un certo retaggio culturale piuttosto che un'idea fondata su basi razionali. La società odierna è figlia di una cultura storica di stampo patriarcale che ben conosciamo. Uno dei pilastri del fascismo, ad esempio, è stato quello di concedere alla donna una qualche considerazione sociale solo nella misura in cui partoriva prole, e questa idea non è sparita con la fine del fascismo ma, in maniera più o meno latente, è viva ancora oggi.
Si tratta di una visione che continua a essere mantenuta in vita, oggi che il fascismo non c'è più, almeno formalmente, dalla politica e dalla Chiesa, entrambi uniti con una sole voce a deplorare il gravissimo problema della denatalità e della catastrofe incombente come conseguenza, ed entrambi impegnati con solerzia a predicare le gioie insite nel fare figli (se non ricordo male, c'è pure un rituale che vede il papa ricevere e benedire pubblicamente, una volta all'anno, una famiglia numerosa in Vaticano).
Davanti a questo scenario, questi rituali e questa incessante propaganda, tutti volti a sottendere che la vita ha senso solo nella misura in cui si generano figli, è tutto sommato normale che tale idea abbia una vasta diffusione e sia largamente condivisa e accettata, che sia ancora metabolizzata come psiche collettiva, e temo che la strada da fare per uscire da questo modo di pensare sia ancora lunga e impervia.