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giovedì 29 aprile 2021

King e Agostino

Prima che a qualcuno venga il dubbio: no, non sono caduto in crisi mistica e non mi sto avvicinando alla fede; rimango ancorato al mio solido ateismo e alla mia altrettanto solida razionalità. Perché allora ho preso in mano questo libro? 

Innanzitutto perché ne ho sempre sentito parlare come di un libro imprescindibile anche per i laici (Agostino è stato un grande pensatore e un uomo dall'intelletto elevatissimo, e pensatori e intellettuali sono categorie che io amo). In secondo luogo perché invogliato da Roberto Mercadini che ne ha parlato qui. Naturalmente non esiste alcuna certezza che io lo porti a termine, ma voglio comunque tentare. 

Questo libro è il terzo che intercalo tra gli otto volumi della saga La torre nera, di Stephen King, e magari l'accostamento King e Agostino d'Ippona può suscitare più di una perplessità. Ma a me non frega nulla. Ho sempre letto di tutto, mischiato stili, generi, autori, spinto solo dal piacere che dà la lettura. Quindi, perché no? 

(L'unico timore che ho è che se ne accorga mia mamma e interpreti questa lettura come illusione che io torni all'ovile. Dal momento che voglio risparmiarle una delusione, cercherò di non farmi sgamare.) :-)

L'era della suscettibilità

Ho appena terminato questo gustosissimo saggio di Guia Soncini, uscito per i tipi di Marsilio. Il libro è sostanzialmente un atto di accusa e di ribellione contro gli eccessi del cosiddetto politically correct e la dittatura degli offesi in modalità permanente. 

Parallelamente alla nascita e al proliferare dei social network si è diffusa quella che viene definita "cancel culture", ossia la rimozione di pensieri e scritti, vergati appunto sui social anche da personaggi pubblici (politici, artisti, uomini di cultura ecc.), perché tali scritti hanno urtato la sensibilità di qualcuno. Il qualcuno in questione, poi, col suo bel cancelletto (#) seguito dal motivo dell'indignazione ha radunato masse di ugualmente indignati che hanno portato il malcapitato autore dell'avventato pensiero a profondersi in tentativi di spiegazione oppure - azione molto più veloce e meno dispendiosa in termini di energie - a rimuovere direttamente lo scritto in questione.

Nel libro, Guia Soncini elenca numerosissimi esempi: Cesare Cremonini che impone alla sua governante moldava il nome Emilia in omaggio alla sua terra, provocando le reazioni indignate dell'internet tutta; Antonella Clerici che nel suo Portobello tiene legato il povero pappagallo al trespolo invece di lasciarlo libero di scorrazzare per lo studio, provocando le reazioni degli animalisti e via di questo passo.

Ma la "cancel culture" non agisce solo nell'ambito della contemporaneità, si sposta anche nel passato, ad esempio obbligando la Disney a ripubblicare alcuni suoi film cartoni animati degli anni Settanta o Ottanta mondati di certe scene o certi dialoghi che oggi, nell'era del politically correct, potrebbero risultare offensivi per qualcuno; oppure obbligando HBO a rimuovere Via col vento dalla sua piattaforma perché troppo pieno di pregiudizi etnici e razziali e via di questo passo.

Ha controindicazioni questo eccesso indiscriminato di politically correct? Sì, perfettamente evidenziate nella domanda cardine che si pone la giornalista: "Quante cose ci stiamo perdendo? Quanti romanzi, quante canzoni, quanti film vengono lasciati tra le idee incompiute perché l’autore poi non vuole passare le giornate a chiarire equivoci?"

Domanda a cui sarebbe interessante avere risposta dagli offesi in modalità permanente.

mercoledì 28 aprile 2021

L'obolo per l'"informazione"

Repubblica, Corriere, La Stampa e altri mi chiedono un obolo per poter leggere integralmente alcuni loro articoli. Si tratta di una cifra relativamente bassa, l'equivalente di un caffè al giorno, più o meno. In genere passo oltre. Non vedo il senso di dover pagare una cifra, seppur esigua, per qualcosa che posso leggere altrove, anche se gli articoli che si nascondono dietro il paywall sono spesso di approfondimento o esclusive della testata che li pubblica.

In più, non vedo perché dovrei foraggiare testate che hanno da tempo sacrificato la professionalità sull'altare dei clic. Non è un discorso che vale per tutti, intendiamoci, sto generalizzando per indicare la direzione del discorso, ma è indubbio che la qualità informativa dei maggiori media è paurosamente diminuita nel corso degli ultimi lustri, grosso modo da quando, con internet, il valore di un articolo si misura in numero di clic e visualizzazioni, che naturalmente generano introiti economici.

Ci sono siti specializzati, come ad esempio Il Disinformatico dell'ottimo Paolo Attivissimo, che a cadenza più o meno giornaliera smascherano assurdità scientifiche, errori di matematica, di grandezze, di misurazioni, errori di contenuto, notizie palesemente false o distorte, e spesso veri e propri obbrobri ortografici e grammaticali, tutti elementi che testimoniano una generale mancanza di competenza e di professionalità.

A tutto questo si aggiunge il fenomeno dei titoloni acchiappa-clic che spessissimo non rispecchiano il contenuto del relativo articolo e che lucrano sulle paure irrazionali delle persone. Quando sono stati resi disponibili i primi vaccini contro il coronavirus, ad esempio, c'è stato (e c'è ancora) un florilegio di articoli con titoli tipo "Professore di liceo muore in circostanze misteriose dopo l'assunzione del vaccino anti-covid", poi si prova a leggere l'articolo e si scopre che la morte è avvenuta dieci giorni dopo senza alcuna correlazione certificata col vaccino. Intanto, però, con quel titolo fuorviante la testata fa il pieno di clic e relativi introiti, lucrando appunto sulle paure della gente. Perché io dovrei foraggiare questo sistema qui?

A questo punto preferisco pagare per un'informazione seria e di qualità, quella che ad esempio fanno i giornalisti de Il Post, che spiegano in maniera chiara, professionale, competente e senza secondi fini gli avvenimenti e i fatti che accadono. Dispiace vedere che testate gloriose come il Corriere della Sera, su cui scrisse Montanelli, Buzzati, Montale, Sciascia, siano ridotte a contenitori acchiappa-clic pieni di materiale informativo di scarto e chiedano pure un obolo per potersi mantenere.

domenica 25 aprile 2021

Sulla "divisività" del 25 aprile

Ci portiamo dietro da circa una settantina d'anni quella che da qualche tempo viene chiamata "divisività" del 25 aprile. 

Ogni anno, cioè, invece di celebrare in maniera unita la festa della Liberazione, ci lasciamo andare a distinguo, divisioni, defezioni, litigi più o meno verbali. Salvini, ad esempio, ogni volta si inventa una iniziativa alternativa o un pretesto per non unirsi alla ricorrenza o comunque per marcare la sua distanza da essa, cosa che naturalmente fanno assieme a lui moltissimi esponenti della destra (ho citato Salvini solo perché è il più noto tra questi). 

Questa divisività affonda le sue radici principalmente nella storia ma, soprattutto, nell'ideologia/partigianeria politica, retaggio della divaricazione tra cattolici e comunisti nel primo dopoguerra. Chi fosse interessato a capirne di più, in questo video il sempre ottimo Paolo Mieli riesce a spiegare le ragioni di questa assurda conflittualità in maniera efficace in soli sette minuti.

Per quanto riguarda Salvini e, in generale, tutti quelli che per qualsiasi motivo non ritengono di dovere unirsi a questa ricorrenza, linko qui di seguito questo brevissimo intervento del sempre grande Alessandro Barbero in cui il famoso storico spiega qual è il senso di questa festa e dove, alla fine, si chiede se veramente chi non la celebra avrebbe preferito che le cose fossero andate diversamente da come sono andate.

sabato 24 aprile 2021

Quanta benzina c'è?

Mi è capitato di imbattermi in uno spot pubblicitario su YouTube (non so se lo trasmettano anche in TV, dal momento che non la guardo) che mi ha dato molto da pensare. Reclamizza un'automobile con integrato una sorta di sistema di assistenza vocale gestito da Google. Nello spot si vede un ragazzotto dall'aria indolente spaparanzato su un divano mentre si ingozza di televisione (almeno leggesse un libro!) che chiede al suo amico, lì vicino, cosa ne pensi di andare al mare. L'amico gli risponde di verificare prima se nella macchina ci sia benzina a sufficienza.

Il ragazzotto indolente, senza muovere un muscolo eccetto quelli deputati all'emissione di suoni dall'apparato vocale, senza schiodarsi dal divano chiede a voce alta a Google quanta benzina ci sia nel serbatoio della macchina. Google, tramite una misteriosa voce fuori campo, gli risponde che il serbatoio è pieno al 95%. Il ragazzotto indolente, non pago dell'informazione, interpella sempre Google per chiedere dove sia la macchina. (Già qui viene da chiedersi: ma come, sei in casa tua spaparanzato sul divano e non sai neppure dov'è la tua macchina? Vabbe'.) Prontamente, Google gli fornisce via e numero civico del posto in cui si trova la macchina. Il ragazzotto sbuffa un po', lamentandosi del fatto che la macchina si trovi alla stratosferica distanza di cento metri (sapete com'è, per un giovane cento metri a piedi sono uno sforzo non trascurabile). Lo spot si conclude poi con svariati elogi alle qualità tecniche del veicolo in questione e al sistema di assistenza vocale integrato come accessorio.

Ora, davanti a uno spot come questo, mi viene da chiedermi in quanti di quelli che l'hanno guardato sia nata una riflessione circa il livello di perversione di tale spot. Già noi occidentali siamo il popolo più debole della terra perché siamo il più tecnicamente assistito, come scrive Umberto Galimberti; invece di spronare la gente a darsi una mossa, a scuotersi, a darsi da fare, subdolamente la si convince a farsi assistere ancora di più e, di conseguenza, a darsi ancora meno da fare, quindi di indebolirsi ancora di più, fino al punto di spacciare come cosa inutile e anacronistica l'alzare il culo da un divano e camminare fino alla macchina per verificare quanta benzina ci sia nel serbatoio.

Quando vedo queste cose, il pensiero va sempre a mia nonna materna, la quale tutti i giorni, all'alba, si alzava e si faceva quatto chilometri a piedi per andare a comprare il pane e altre cose a Santarcangelo. E poi ne faceva altri quattro per tornare, e una volta tornata andava nei campi dietro casa a dare una mano, con in più anche l'incombenza di dover badare ai figli e a tutto ciò che c'era da fare per mandare avanti la casa. Vi siete mai chiesti perché ai tempi dei nostri nonni non esistevano gli psicanalisti? Perché la gente aveva da fare, c'era il lavoro, la vita ce la si sudava, e non c'era tempo per il cazzeggio improduttivo da riempire con assurdità tecnologiche. 

Sì può obiettare - è l'obiezione più comune - che però oggi si è più felici rispetto ai tempi dei nostri nonni. Che sarà anche vero, per carità, salvo poi scoprire che il 55% degli italiani fa regolare uso di psicofarmaci, e allora qualche dubbio relativamente alla presenza di tutta questa felicità viene. Forse.

C'entra l'economia

Le 130 vittime dei naufragi di ieri al largo della Libia non sono da addebitare al razzismo. In generale, il razzismo c'entra poco coi drammi che da anni si consumano al centro del Mediterraneo. C'entra sempre l'economia. Se nello stesso punto in cui sono affondati i barconi fosse precipitato un aereo di linea, avremmo avuto i soccorsi di mezza Europa in loco nel giro di un paio d'ore. I migranti, invece, nonostante l'allarme naufragio fosse stato lanciato da due giorni, sono stati abbandonati al loro destino dall'Europa e dalla Libia.

La differenza di trattamento la fa l'economia: i migranti che arrivano in Europa sono visti come un costo, non come una risorsa, e siccome la società che abbiamo costruito tende a usare il denaro come parametro a cui rapportare tutto, compresa la vita, ecco che i migranti, inutili dal punto di vista economico, vengono abbandonati al loro destino.

Più o meno vent'anni fa, ricorderete, fu varata la famosa/famigerata Bossi-Fini, e il punto cardine del provvedimento era che l'ingresso in Italia degli stranieri fosse vincolato al possesso di un contratto di lavoro, altrimenti arrivederci e grazie. Cioè, se tu straniero hai un valore economico, bene, altrimenti puoi tornartene a casa, ché del tuo valore umano non frega niente a nessuno. 

Tutto legittimo e in linea coi nostri valori esclusivamente monetari, certamente, un po' meno in linea con altri valori di cui l'Europa ama riempirsi la bocca (umanità, diritti umani, solidarietà ecc.), salvo poi accantonarli frettolosamente quando entrano in contrasto con l'unico che conta realmente.

lunedì 19 aprile 2021

A nome nostro

Tra le dichiarazioni più irritanti (sono quasi tutte irritanti) pronunciate da Salvini dopo il rinvio a giudizio per la faccenda Open Arms, c'è quel "ci vado a nome vostro". Già fa salire il crimine la storiella della difesa dei confini (da cosa ha difeso i confini, da un centinaio di disperati?); ma dover anche sentire che andrà a processo a testa alta e in nome nostro fa girare ancora di più le appendici pendule. 

Non è la prima volta che usa questa espressione, con cui ammanta le sue porcate di una sorta di legittimazione popolare urbi et orbi che non esiste, e questo ideale "spalmare" su ogni italiano la responsabilità di ciò che ha fatto dà, più di ogni altra cosa, la misura della pasta di cui è fatto l'uomo.

A nome mio non ci vai, non ti ho mai concesso alcuna delega di rappresentanza, né mai lo farò, e non voglio in alcun modo essere idealmente associato alle tue porcate. Mamma mia, che fastidio...

sabato 17 aprile 2021

Maria Bassi

Il Google Doodle di oggi celebra Maria Bassi, fisica italiana e prima donna a ottenere una cattedra universitaria. Questa cosa mi ha fatto venire in mente che anni fa iniziai a scrivere quello che nelle mie intenzioni voleva essere un romanzo, che intitolai Il mistero della terza statuetta (non ridete, per favore). 
Il lavoro rimase incompiuto - mi fermai al sesto capitolo - e ancora oggi riposa beatamente in una cartella del mio PC. Uno dei personaggi si chiama appunto Maria Bassi e nel mio romanzo è la donna che regolarmente va a casa del prete (don Alfio) per fare le pulizie e tenere in ordine. Chissà, forse Google, col suo Doodle, ha voluto spronarmi a riprenderlo.

mercoledì 14 aprile 2021

Vaccino e trombosi


Circola in rete da qualche giorno l'immagine che vedete qui sopra, che ha lo scopo di rappresentare graficamente l'incidenza del vaccino AstraZeneca nell'insorgenza di eventi trombolitici rispetto ad altri fattori. 

L'iniziativa grafica è a mio parere lodevole ma, temo, totalmente inutile, per il semplice motivo che chi ha interiorizzato la diffidenza o la paura nei confronti del vaccino, in genere non ragiona su base razionale e/o numerica ma emotiva e/o ideologica, per cui non c'è numero che tenga, e le folte schiere di no-vax sono lì a dimostrarlo. 

Più in generale: da una parte abbiamo un vaccino che provoca una reazione grave ogni milione di somministrazioni, dall'altra un virus che da oltre un anno provoca centinaia di vittime ogni giorno. Non ci sarebbe neppure discussione, in un paese mediamente in grado di mettere questi due dati sul piatto di una bilancia e tirare le conclusioni. Ma noi non siamo quel paese, purtroppo.

lunedì 12 aprile 2021

L'altro principe Filippo

Mentre lentamente comincia a scemare e a ritirarsi lo tsunami mediatico generato dalla dipartita di Filippo di Edimburgo, c'è chi, andando contro corrente rispetto al profluvio di incensamenti della sua persona da parte dell'informazione mainstream, racconta anche i tratti della sua storia e della sua vita che tutti hanno accuratamente evitato di menzionare. A tal proposito, un esaustivo post l'ha vergato il sempre ottimo Diciottobrumaio qui.

Vecchi amici

5:30 di stamattina. Mi fermo al bar per un cappuccino e un cornetto. Al banco c'è un vecchio amico che non vedo da almeno una quindicina d'anni. Mi riconosce lui. Ci salutiamo. Ciao, come va? cosa fai adesso? I classici convenevoli. Lo guardo. Mi sembra molto invecchiato e un po' mi dispiace. Poi penso che io devo aver fatto a lui la stessa impressione. Ci salutiamo e ognuno va per la propria strada. Magari ci rivedremo tra altri 15 anni, chissà.

sabato 10 aprile 2021

Figli sì o figli no?

Ogni tanto mi capita di imbattermi in discussioni intorno a questo tema: una donna che genera figli è più "completa" di una che, per i più disparati motivi (compreso la scelta volontaria di non volerne avere), non ne genera? Oppure: la vita di una donna che mette al mondo dei figli ha più senso di una che non lo fa?

Il tema è delicato, naturalmente, perché va a toccare la sfera della soggettività, dell'identità, dei valori e anche della visione della vita e del retaggio culturale che è proprio di ogni persona, aspetti sui quali io non mi sogno neppure di mettere becco. In linea generale, ed è abbastanza ovvio che sia così, chi ha figli tende a considerare inconcepibile l'idea che si possa non averne; chi invece non ne ha (qui mi riferisco ovviamente a chi non ne ha per libera scelta) ritiene che la vita abbia comunque perfettamente senso e pari dignità di chi ne ha.

Ammesso che la vita abbia un senso (la questione meriterebbe riflessioni a parte, quindi lascio stare), io tendo a trovarmi in sintonia con chi ritiene che non siano i figli a darglielo, che non sia l'essere madre (o padre, il discorso ha una sua plausibilità anche per gli uomini) a dare alla vita patente di completezza. Il senso che ogni persona dà alla propria vita credo sia definito da ciò che ognuno sente liberamente di voler fare, da ciò che riesce a realizzare, dai comportamenti che decide di attuare come riflesso delle proprie convinzioni e idee.

Alla luce di questo, mi riesce estremamente difficile comprendere perché una vita senza figli non debba avere senso o non possa essere completa, e tendo, correndo naturalmente il rischio di sbagliare, a pensare che questa idea sia niente di più che il lascito di un certo retaggio culturale piuttosto che un'idea fondata su basi razionali. La società odierna è figlia di una cultura storica di stampo patriarcale che ben conosciamo. Uno dei pilastri del fascismo, ad esempio, è stato quello di concedere alla donna una qualche considerazione sociale solo nella misura in cui partoriva prole, e questa idea non è sparita con la fine del fascismo ma, in maniera più o meno latente, è viva ancora oggi.

Si tratta di una visione che continua a essere mantenuta in vita, oggi che il fascismo non c'è più, almeno formalmente, dalla politica e dalla Chiesa, entrambi uniti con una sole voce a deplorare il gravissimo problema della denatalità e della catastrofe incombente come conseguenza, ed entrambi impegnati con solerzia a predicare le gioie insite nel fare figli (se non ricordo male, c'è pure un rituale che vede il papa ricevere e benedire pubblicamente, una volta all'anno, una famiglia numerosa in Vaticano).

Davanti a questo scenario, questi rituali e questa incessante propaganda, tutti volti a sottendere che la vita ha senso solo nella misura in cui si generano figli, è tutto sommato normale che tale idea abbia una vasta diffusione e sia largamente condivisa e accettata, che sia ancora metabolizzata come psiche collettiva, e temo che la strada da fare per uscire da questo modo di pensare sia ancora lunga e impervia.

venerdì 9 aprile 2021

WhatsApp e noi

"Ti ho mandato un messaggio su WhatsApp, perché non mi hai risposto?" Oppure: "Ti avevo fatto un audio, ma tu l'hai ascoltato tardi." A voi non capita mai di chiedervi se WhatsApp sia solo uno strumento a nostra disposizione o se siamo noi a essere semplici strumenti al suo servizio? A me ogni tanto viene da chiedermelo. Dico WhatsApp per indicare tutto l'armamentario di comunicazione tecnologica che ha fagocitato più o meno le vite di tutti e che ci ha fatto entrare a tutti gli effetti nell'era della velocizzazione del tempo.

Ricordo una conferenza di Paolo Crepet in cui il noto psichiatra, per cercare di far capire ai suoi ascoltatori la differenza tra essere padroni o essere succubi della teconologia, raccontava di quando nell'appartamento in cui abitava sua nonna fu installato per la prima volta il citofono. Per l'anziana signora fu una rivoluzione il fatto di poter sapere chi fosse a suonare il campanello sollevando la cornetta e di poter aprire la porta semplicemente spingendo un pulsante, ma il ruolo del citofono si esuriva lì e la nonna, pur felice di questa rivoluzionaria novità, non passava l'intera giornata attaccata alla cornetta.

L'esempio del citofono è naturalmente una forzatura, ma mi sembra che abbia una sua efficacia nel far capire la differenza tra le due situazioni.

La primavera si guarda intorno

Scrive Stephen King in Terre desolate: "Il 7 maggio, il giorno in cui aveva avuto inizio la sua follia, era stata una bella giornata, ma niente a che vedere con oggi, il giorno forse in cui la primavera si guarda intorno e vede che l'estate è vicina" [...] 

Un altro qualsiasi scrittore avrebbe probabilmente messo giù lo stesso concetto in modo più ordinario o banale, tipo: "...il giorno in cui è ormai chiaro che la primavera è agli sgoccioli e l'estate è alle porte". Oppure: "...il giorno che toglie ormai ogni dubbio sul fatto che la la primavera sta per cedere il passo all'estate". E si potrebbe continuare con altri esempi simili. Invece no. King aggira queste banalità come solo lui sa fare e scrive: "...il giorno forse in cui la primavera si guarda intorno e vede che l'estate è vicina." Ecco perché amo King da sempre. Perché certe sottigliezze linguistiche e certi trucchetti semantici riescono così bene solo a lui. Non dico che anche altri scrittori non li usino, ci mancherebbe, ma lui riesce a utilizzarli in maniera inarrivabile.

martedì 6 aprile 2021

Vaccini e compleanno

Due avvenimenti di oggi: il primo importante, l'altro no. Quello importante è che i miei genitori, questa mattina, faranno il vaccino anti-covid, il tanto vituperato AstraZeneca. lo faranno con una lieve preoccupazione a causa della marea di stupidaggini e bufale veicolati senza soluzione di continuità dai media nostrani, ma lo faranno comunque convintamente. L'avvenimento senza importanza è che, sempre oggi, ne faccio 51 e anche questo compleanno, come il precedente, lo "festeggio" in zona rossa e in mezzo a una pandemia di cui si fatica a vedere l'uscita.
Tiriamo avanti, va'.

lunedì 5 aprile 2021

Tessere di partito

Leggo che PD e Fratelli d'Italia stanno lì a contarsi i rispettivi tesserati. Magari sarò all'antica, ma non riesco a capire, oggi, il senso del tesseramento a un partito. Vedo infatti il tesseramento come una sorta di adesione fideistica totalmente priva di spiegazione razionale. L'avrebbe, al limite, se i partiti politici avessero una visione progettuale lungimirante, chiara, definita, magari ancorata a dei valori in linea col retaggio culturale da cui provengono. Ma oggi non mi pare di vedere partiti con queste caratteristiche, a meno che non ci sia qualcuno disposto a credere che il PD targato Renzi fosse un partito di sinistra o che i Cinquestelle o la lega siano partiti caratterizzati da una certa coerenza di idee. 

Che senso ha tesserarsi a partiti disposti a sacrificare ogni valore e ogni coerenza sull'altare del consenso e gestiti da personaggi che su qualsiasi tema cambiano idea ogni due ore? Da questo punto di vista trovo avesse molto più senso tesserarsi nel dopoguerra al Movimento Sociale di Almirante o al Partito Comunista di Berlinguer, perché si trattava di partiti con ideologie, scopi e obiettivi chiari, e chi si riconosceva in quegli ideali e quegli obiettivi sapeva di poter contare sul fatto che sarebbero stati perseguiti seriamente. (A proposito del Movimento Sociale, mi sono sempre chiesto come sia stato possibile che la sua esistenza sia sempre stata tollerata in barba alla Costituzione e a più di una legge che proibisce la nascita di partiti e movimenti che si richiamano espressamente al fascismo, ma questo è un altro discorso.)

A meno che il tesseramento, oggi, nell'era della politica liquida e di perdita di ogni riferimento progettuale e culturale, abbia più un valore psicologico che politico, nel senso che il tesseramento a un partito sia inteso come costituzione di un punto di riferimento comune per riconoscersi e non perdersi nel marasma politico dilagante. Ma prendete questa riflessione per quello che vale, è solo una ipotesi.

domenica 4 aprile 2021

70


C'è un signore che oggi ne fa 70. Uno degli ultimi grandi rimasti. In una sua vecchia canzone scrisse: "Vent'anni sembrano pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi più..."
Buon compleanno, "Principe".