Ermanno Bencivenga, filosofo e logico, non è il primo che scrive libri su quella che è probabilmente la maggiore rivoluzione antropologica a memoria d'uomo, ossia la progressiva perdita della capacità di pensare e ragionare. L'hanno fatto prima di lui altri rinomati filosofi, psicologi e pensatori: Emanuele Severino, Giulio Giorello, Umberto Galimberti, Paolo Crepet, Vittorino Andreoli. Eppure, nonostante la sua portata, nel dibattito collettivo questa rivoluzione, che sarebbe meglio chiamare involuzione, è quasi del tutto assente. Se non pochi addetti ai lavori, nessuno o quasi ne parla, nessuno le dedica prime pagine o trasmissioni televisive. La politica figurarsi, dal momento che campa su questo.
Questo ottimo saggio di Bencivenga ha il pregio di essere chiaro, diretto, ficcante, e descrive il problema andando subito al sodo, senza fronzoli. E questo già dall'introduzione, nel quale l'autore scrive: "Perché un candidato alla presidenza degli Stati Uniti può vincere le elezioni sbraitando menzogne come 'Costruirò un muro tra gli Stati Uniti e il Messico e a pagarlo saranno i messicani'? Perché abbiamo voglia di comprare un Nespresso dopo aver visto l'ennesima pubblicità con George Clooney? Perché se ci troviamo in una città sconosciuta camminiamo con lo sguardo incollato allo schermo del telefonino, preoccupati solo di non perdere di vista Google Maps?"
Queste, e altre domande presenti nel libro, hanno una risposta che sostanzialmente le accomuna: la rinuncia al pensiero. Trump, che fortunatamente siamo oggi riusciti a toglierci dai piedi, vinse le elezioni nel 2016 vomitando durante tutta la campagna elettorale promesse surreali. E ancora oggi, pur avendo perso, ha potuto mettere in saccoccia decine di milioni di voti nonostante abbia condito i suoi quattro anni di presidenza con una infinita sequela di bufale, sciocchezze pseudo-scientifiche e stupidaggini logiche.
Ma anche noi, su questo versante, non siamo purtroppo messi meglio, e i due anni di governo con Salvini al ministero dell'Interno sono solo l'ultima delle dimostrazioni. Ma prima di questo c'è stato il famoso/famigerato ventennio in cui Berlusconi ha fatto il bello e il cattivo tempo, riducendo la politica a mero veicolo per la soddisfazione di istanze del tutto personali (chi ha seguito quel periodo politico sa benissimo a cosa mi riferisco), continuando malgrado ciò a mantenere alti consensi. Tutto ciò è ancora una volta dimostrazione della perdita di raziocinio e di senso critico di buona parte delle italiche genti. Berlusconi e Salvini, ma anche tanti altri (ad esempio Renzi, giusto per restare all'attualità), hanno tratto grandissimi vantaggi politici da questo rifiuto/incapacità ormai generalizzati di mettere sulla graticola gli annunci, di problematizzare gli slogan, di passare al vaglio della ragione l'infinita teoria di improbabili promesse che a cadenza giornaliera vengono date in pasto all'opinione pubblica da chi a vario titolo amministra la cosa pubblica. Siamo probabilmente di fronte a una delle maggiori rotture epistemologiche della storia recente e questa rottura sta passando praticamente inosservata.
La gravità della cosa è che non si tratta di mettere in discussione assunti particolarmente complicati o articolati, ma vere e proprie banalità. Scrive a questo proposito Bencivenga: "Se io argomento che i migranti andrebbero respinti alla frontiera perché quelli che ho incontrato sono delinquenti, la logica mi farà notare che ho incontrato una minima percentuale di migranti e su tali basi non posso fondare affermazioni generali relative a tutti i migranti e all'approccio che dovremmo avere nei confronti di (tutti) loro. Se argomento che respingere i migranti alla frontiera creerà più posti di lavoro per chi è nato in Italia, la logica mi farà notare che non è detto che chi è nato in Italia voglia sobbarcarsi i lavori dei migranti (e magari citerà l'esempio degli Stati Uniti, dove questa ipotesi si dimostra falsa). In casi del genere la logica, lungi dall'inchiodarci a percorsi inevitabili, ha un effetto liberatorio: spalanca un ambito di possibilità alternative che i pregiudizi (le fette del salame sugli occhi) ci impediscono di cogliere e apprezzare."
Le obiezioni logiche e razionali menzionate dall'autore nei due esempi sono banali, se ci fate caso, eppure, nonostante questa banalità, vengono generalmente rifiutate, per il semplice motivo che metterle in discussione significa mettere in discussione la fedeltà a chi le ha pronunciate, significa mettere in discussione la propria fede politica, mettere in discussione i propri pregiudizi; in una parola: mettere in discussione la propria identità. E di fronte a questo non c'è razionalità che tenga.
Ma l'abbandono della razionalità, argomenta sempre l'autore, è un fattore di successo da parte di chi ne sa utilizzare le potenzialità perché, dal punto di vista antropologico, fa leva sullo spirito di imitazione di un modello (un capo carismatico, un personaggio pubblico famoso ecc.), e questo vale per la politica, per la pubblicità e in qualsiasi altro ambito in cui esista un progetto che abbia come subordine la persuasione delle masse. Dal punto di vista antropologico, nella storia dell'evoluzione umana il pensiero e il ragionamento sono conquiste relativamente tardive; prima che si sviluppassero, gli uomini erano membri di un branco e questo branco era sempre dominato da un capo, generalmente incarnato da una figura più carismatica delle altre. La pubblicità e la politica, oggi, fanno esattamente questo: agiscono sulla nostra leva interna che riporta in vita quell'antico meccanismo che la conquista del pensiero e del ragionamento avevano neutralizzato e relegato nell'oblio.
In altre parole, la perdita della volontà/capacità di pensare ci riporta ai tempi arcaici in cui un gruppo di persone era sostanzialmente succube della volontà di un capo. Esattamente ciò che succede oggi: un politico con una spiccata capacità affabulatoria può fascinare un vasto seguito di persone sparando valanghe di bufale, sicuro che nessuno o quasi avrà voglia (o capacità) di metterle in discussione. Qui, naturalmente, si apre un doloroso capitolo inerente alla qualità di una democrazia che si regga su masse pilotabili senza particolari difficoltà, proprio perché hanno delegato ad altri la facoltà di pensare e ragionare per esse.
La progressiva scomparsa del pensiero e del ragionamento ha, tra le sue principali cause, la velocità con cui oggi vengono veicolate le informazioni e con cui la tecnologia media e gestisce le interazioni umane. Chiunque abbia un profilo su qualche social network sa benissimo cosa intendo. Le comunicazioni sono velocissime, stringate perché sono disponibili solo un tot di caratteri, e la risposta dev'essere immediata altrimenti si esce dal "gioco". Se io ricevo una mail e non rispondo dopo poco tempo, mi arriva una telefonata con cui mi si chiede ragione della mancata rapida risposta. Non esiste più il tempo della riflessione, tutto si deve svolgere in tempo reale (qui ho raccolto alcuni esempi fatti dall'autore del libro). La televisione, naturalmente, si è subito adeguata alla situazione, basta guardare un qualsiasi talk-show su qualsiasi rete: le interazioni tra i partecipanti sono basate esclusivamente sulla sulla ripetizione ossessiva di slogan e dettati ipnotici dietro ai quali, nella stragrande maggioranza dei casi, non esiste alcun ragionamento. Lo scopo è esclusivamente quello di "demolire" l'avversario e mai quello di discutere costruttivamente. Chi provasse a imboccare la strada del ragionamento costruttivo, ne uscirebbe sicuramente sconfitto.
A questo proposito riporto un esempio tratto dal libro, relativo al famoso referendum costituzionale del 2016. Scrive l'autore: "Durante la campagna referendaria del 2016 si svolsero numerosi dibattiti tra i sostenitori del Si e del No. Uno di questi mi sembrò particolarmente significativo, perché mise a confronto non solo due personaggi di parere discorde, ma due opposti linguaggi. Andò in onda a LA7 nella serata di venerdì 30 settembre; i due personaggi erano il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il giurista, già presidente della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky. I due parlarono a lungo ma non interagirono mai perché si muovevano su piani paralleli: Zagrebelsky ragionava, con metodo e pazienza (o almeno ci provava, tra un'interruzione e l'altra); Renzi enunciava slogan, non capiva (o faceva finta di non capire) quel che diceva il suo interlocutore e cambiava discorso. Il giorno dopo, con poche eccezioni, i mezzi di comunicazione proclamarono una netta vittoria mediatica di Renzi. Avendo seguito il dibattito, pensavo che Zagrebelsky avrebbe certo potuto, talvolta, essere più incisivo, ma pensavo pure che tra le sue articolate argomentazioni e le battute, spesso ad personam, del suo avversario ci fosse un abisso e mi sentii riportato indietro di 2500 anni, al Gorgia di Platone, là dove Socrate pone in contrasto la sua logica serrata con gli appelli alla pancia del pubblico di retori e sofisti."
Insomma, in televisione, come sui social, come ormai nella società tutta, non vince chi ragiona e argomenta ma chi è più veloce a partorire slogan, che nessuno ormai metterà più in discussione. Non so quanto sia percepita e quanto desti preoccupazione questa rivoluzione/involuzione di cui, volenti o nolenti, siamo vittime, questa perdita della capacità di pensare e ragionare. A me, moltissimo.