Espulsa dalla scuola l'educazione emotiva, l'emoziona vaga senza contenuti a cui applicarsi, ciondolando pericolosamente tra istinti di rivolta, che sempre accompagnano ciò che non può esprimersi, e tentazioni di abbandono in quelle derive di cui il mondo della discoteca, dell'alcol e della droga sono solo esempi neppure troppo estremi. Se c'è da dar ragione ad Aristotele che distingue tra cause prime e cause seconde, verrebbe da chiedersi se prima di quelle cause seconde che si chiamano sesso, alcol e droga non ci sia come causa prima del disagio giovanile quel vuoto emotivo ed esistenziale che la scuola crea attorno agli studenti, a cui offre una cultura così disanimata per cui alla fine è indifferente all'animo del giovane non coinvolto studiare i logaritmi o i Sepolcri del Foscolo. Eppure, diceva Paolo di Tarso: Non intratur in veritate nisi per charitatem: Non si entra nella verità senza l'amore. Nelle nostre scuole l'amore si risolve nella miseria delle simpatie. L'identità degli studenti bravi si costruisce sulle disfatte di quelli non bravi, o, come si dice nel gergo scolastico, insufficienti; le valutazioni avvengono sulla base di impressioni soggettive, dove le proiezioni sfuse di studenti e professori si mescolano e approdano a un giudizio di maturità costruito in un colloquio di trenta minuti che si svolge tra due sconosciuti.
Vi risparmio poi quel lessico impreciso al limite dell'insignificanza che alimenta i colloqui tra genitori e professori, con espressioni: 'Dovrebbe metterci più buona volontà', 'Dovrebbe impegnarsi di più', 'È sempre disattento', 'Lega poco in classe' in cui c'è un precipitato di ignoranza che sarebbe motivo sufficiente per espellere dalla scuola quanti non sanno che la volontà non esiste ad di fuori dell'interesse, che l'interesse non esiste separato da un legame emotivo, che il legame emotivo non si costruisce quando il rapporto tra professore e studente è di reciproca diffidenza, quando non di assoluta incomprensione.
Di fronte all'incomprensione, che scatta non appena la psicologia dello studente esce dagli schemi della psicologia del professore, ci si attiene ai dati oggettivi che sono le prestazioni di profitto. Ma siccome il profitto è l'ultimo risultato di quella catena che, percorsa a ritroso, indica comprensione, interesse, sollecitazione emotiva, non è difficile demotivare, anche in modo grave, studenti giudicati in base all'esito che può scaturire solo da premesse che la scuola ha evitato di curare. Non vale l'obiezione che compito della scuola è di istruire la mente e non prendersi cura dei fattori emotivi, perché, dal topo nel labirinto al giovane studente a scuola, non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva, e l'incuria dell'emotività, o la sua cura a livelli così sbrigativi da essere controproducenti, è il massimo rischio che oggi uno studente, andando a scuola, corre. E non è un rischio da poco, perché se è vero che la scuola è l'esperienza più alta in cui si offrono i modelli di secoli di cultura, se questi modelli restano contenuti della mente senza diventare spunti formativi del cuore, il cuore comincerà a vagare senza orizzonte in quel nulla inquieto e depresso che neppure il baccano della musica giovanile riesce a mascherare. Causa prima di devianza, rispetto a tutte le cause seconde che la scuola offre con quel volto irresponsabile di chi si tiene fuori dai problemi connessi ai processi di crescita, e, limitando consapevolmente il suo spazio operativo, manifesta quella falsa innocenza che l'oggettività del trattamento (profitto-giudizio) è sempre disposta a concedere a chi non si prende cura della soggettività dei giovani, perché mettervi le mani non garantisce di poterle togliere fuori davvero pulite e disinfettate."
(da Parole nomadi, Umberto Galimberti, Feltrinelli)
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