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mercoledì 1 maggio 2019

Il mio primo maggio

Nel 1989 mi arrivò la chiamata per il servizio militare, allora obbligatorio. Mollai ragioneria al quarto anno - non ne potevo più - e partii. Feci domanda di svolgere la ferma di leva nel Vigili del fuoco: domanda accettata. Tre mesi di corso a Roma, alle Capannelle, poi quattro mesi a Vigevano e gli ultimi cinque qua a Rimini, praticamente a casa. Terminata la leva, dovevo trovare qualcosa da fare. Venni a sapere che un'agenzia di distribuzione stampa, a Rimini, assumeva ogni anno ragazzi per la stagione estiva. Mi presentai per il colloquio e fui assunto, erano i primi di aprile del 1990. In settembre, quando il mio contratto era ormai prossimo alla scadenza, il titolate mi chiese se mi fosse interessato restare. Non avendo in quel periodo altre prospettive, accettai e restai: il mio lavoro estivo si trasformò in un contratto a tempo indeterminato. Oggi, trent'anni dopo, lavoro ancora lì, e se non si presenteranno imprevisti, sotto questi chiari di luna sempre da mettere in conto, è probabile che riuscirò a terminare la mia vita lavorativa dove la iniziai.

Tantissimo è cambiato, da quegli anni a oggi, nel mondo del lavoro, e non mi riferisco solo al fatto che all'epoca non esistevano co.co.co, co.co.pro, flessibilità (sinonimo edulcorato di precarietà), contratti a progetto e simili, ma mi riferisco anche al fatto che la disponibilità pressoché illimitata di posti di lavoro faceva sì che il tuo collega di lavoro fosse anche un compagno, mentre oggi è un competitore, nel senso che chi si sbatte di più, chi rende di più, fa sì che l'altro, in caso di razionamento forzato di personale, venga lasciato a casa. Forte di un contratto a tempo indeterminato, potei così mettere su famiglia, imbarcarmi in spese, progettare cose.

Non so se abbia senso, per un giovane di oggi, festeggiare il primo maggio. Cosa festeggia chi ha davanti a sé prospettive lavorative con contratti a chiamata o a tempo determinato di tre o sei mesi? Cosa si può programmare con questi scenari? Ho due figlie; dopo la maturità una ha scelto di andare a lavorare e l'altra di continuare a studiare. Quella che lavora, dalla maturità in qua è sempre andata avanti con contratti a termine e, forse, solo a partire da settembre avrà la possibilità di vedere una certa stabilità. Quella che studia, ha una laurea in pedagogia e attualmente si sta specializzando a Bologna. Nel frattempo fa la cameriera nei weekend per pagarsi, almeno in parte, studi e camera in affitto là dove studia. Poi? Boh, non si sa. Terminata la specializzazione vorrebbe naturalmente trovare un impiego che sia attinente a ciò che ha studiato, e ha anche qualche contatto avviato, ma, almeno all'inizio, sarà qualcosa di ben poco stabile. Ma lei quell'università voleva fare, l'ha scelta perché le piaceva, era quella che desiderava fare, e noi non ci siamo opposti in alcun modo a ciò che erano le sue aspirazioni.

Questo breve racconto solo per evidenziare come sia cambiato radicalmente il concetto di lavoro nell'arco di trent'anni, che sembrano molti, ma in realtà non lo sono. Trent'anni sono stati sufficienti per passare dalla relativa sicurezza di un impiego fisso alla atomizzazione e parcellizzazione del lavoro, portati avanti con assidua pervicacia da ogni riforma del lavoro di qualsiasi governo, iniziata col famigerato pacchetto Treu del 1992, proseguita poi con la legge Biagi, il decreto Poletti, e, ciliegina sulla torta, il famigerato Jobs Act di renziana memoria, tutti provvedimenti all'insegna dell'aumento della precarietà spacciata per flessibilità, perché ci avevano spiegato che le sfide del lavoro del futuro si sarebbero vinte solo con la flessibilità. Poi si è visto com'è andata a finire.

Non so, ripeto, di fronte a questi scenari, come un giovane di oggi possa festeggiare il primo maggio.

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