Domani, finalmente, andremo a votare e ci toglieremo dalle scatole una volta per tutte questo referendum costituzionale, che naturalmente lo scrivente si augura sia archiviato con la vittoria del No. Assieme ad esso ci toglieremo dalle scatole - speriamo - questa bruttissima campagna referendaria e tutti i veleni che si è trascinata dietro. Non è stata infatti una normale campagna referendaria ma una vera e propria guerra, voluta da chi, fin dall'inizio, ha deciso di personalizzare questa revisione costituzionale riducendola al rango di posta di una scommessa tutta personale, ossia il terreno peggiore su cui incastonare una revisione della Costituzione che invece, come i padri costituenti (quelli veri) ci hanno insegnato, avrebbe dovuto essere innestata su un terreno di condivisione, apertura alle altrui idee e massima partecipazione possibile di tutte le forze politiche. Così non è stato e ne prendiamo atto, confidando che gli italiani che domani andranno alle urne ricaccino al mittente questa pessima revisione costituzionale, pessima nel metodo e nel merito. Ho seguito molto tutta la campagna, mi sono informato sia su internet sia leggendo un paio di libri in merito, e quindi provo qui di seguito a smontare alcune - non tutte: è impossibile - delle affermazioni che sono state enunciate dai sostenitori della riforma a (fragile) supporto della medesima.
La prima questione, come scrivevo qui sopra, riguarda appunto il metodo. Non è concepibile che una revisione della Costituzione che modifica un terzo dei suoi articoli e che ne cambia l'impianto e lo spirito sia imposta da una maggioranza di governo, specie se si tratta di una maggioranza taroccata (ci torno dopo) che del paese reale rappresenta una minoranza. Le revisioni costituzionali devono essere di iniziativa parlamentare, non governativa, e avviate su esplicito mandato popolare indirizzato appunto al Parlamento. Qui non abbiamo alcun mandato popolare indirizzato al Parlamento, ma abbiamo una brutale imposizione da parte di un governo che, giova ricordarlo, è stato eletto a governare con l'utilizzo di una legge elettorale dichiarata incostituzionale. La Corte Costituzionale ha infatti stracciato il Porcellum con la sentenza 1/2014, e non ha disposto lo scioglimento delle Camere solo per garantire la continuità istituzionale e per il disbrigo degli affari legislativi contingenti, tra cui l'approvazione di una nuova legge elettorale, questa volta rispondente ai dettami della Carta, con cui tornare subito al voto. Chi contesta questa lettura lo fa adducendo l'assunto che la Consulta non ha esplicitamente dichiarato incostituzionale questo governo, né tantomeno lo ha menomato della possibilità di avviare una riforma della Costituzione. In realtà, chi sposa questa lettura della sentenza finge di ignorare che la Corte, nella suddetta sentenza, ha sì autorizzato le Camere a continuare a operare e legiferare, ma non in forza della legge dichiarata incostituzionale, bensì in forza del "Principio di continuità dello Stato", e ha specificato che tale principio si applica in due soli casi: quando le Camere vengono prorogate dopo il loro scioglimento fino a nuove elezioni, e quando vengono sciolte e poi riconvocate per conventire in legge i decreti, attività che prevedono un tempo massimo di tre mesi. Questo governo, invece, si è insediato come se niente fosse, con tutta l'intenzione non solo di governare per cinque anni, ma addirittura di mettere in campo una revisione costituzionale i cui effetti si snoderanno sui prossimi decenni. In aggiunta, c'è da segnalare che sul programma elettorale con cui il Partito Democratico si è presentato alle elezioni del 2013, e sul quale questo governo lavora, di questa revisione costituzionale non si trova una riga. Quindi?
Esaurita la questione del metodo, veniamo al merito, e precisamente ad alcune delle frottole con cui Renzi e soci stanno abbindolando da mesi i poveri di spirito. Una di quelle che va per la maggiore è che il superamento del bicameralismo paritario porterà una semplificazione e una maggiore velocità del processo legislativo. Non è vero niente, e non perché lo dica io, ma perché lo dicono tutti i maggiori costituzionalisti italiani. Attualmente il meccanismo legislativo italiano è molto semplice e prevede che al vaglio delle due Camere passino solo due tipologie di leggi: ordinarie e costituzionali. Se passerà questa riforma, le leggi costituzionali rimarrano subordinate al bicameralismo paritario, come succede ora, quindi da questo punto di vista non cambierà niente, ma quelle ordinarie saranno suddivise in una decina di tipologie diverse (ancora non si è riusciti a capire neppure quante: chi dice 12, chi 20 ecc.) e tutte dovranno passare comunque al vaglio del nuovo Senato. Sarà sufficiente infatti che appena un terzo dei senatori lo richieda che la legge dovrà essere esaminata, ed eventualmente emendata, da palazzo Madama, che poi dovrà rispedirla alla Camera per l'ultima lettura. È vero, quindi, che l'ultima parola ce l'avrà la Camera, ma quello che Renzi chiama "navetta" o "ping-pong" rimane comunque, e c'è il rischio tutt'altro che trascurabile che siano molte di più le leggi che faranno il ping-pong con la nuova Costituzione che con quella che abbiamo adesso. E, come scrivevo ieri nel post precedente, sono i numeri che dànno conforto a questa previsione. Se infatti prendiamo in esame l'attuale legislatura, quella appunto di Renzi, scopriamo che oltre l'80% delle leggi fatte dal suo governo (202, per la precisione) sono passate velocemente al primo colpo, ossia con una lettura semplice Camera-Senato. Quelle che sono dovute sottostare a tre o più passaggi sono una piccolissima minoranza. Tutto questo sta lì a dimostrare che a noi non sevono più leggi (già ora non si resce neppure a stimare quante ce ne siano), né una maggiore velocità legislativa, a noi servono leggi scritte meglio, più approfondite e più organiche, e possibilmente scritte da politici che ne siano all'altezza. Ecco, smontata in poche righe, una delle balle che con maggior forza ci stanno in questo periodo propinando. Ma prosegiamo.
Ci raccontano che un Senato che non potrà più dare la fiducia al governo sarà garanzia di maggiore stabilità. Non è vero niente, e anche qui sono i fatti a dimostrarlo, i numeri. Sapete quanti, dei 63 governi che l'Italia repubblicana ha avuto, sono caduti per la mancanza della fiducia del Senato? Due (2): i due governi Prodi. Basta. Tutti gli altri sono caduti per cause diverse che col Senato non c'entrano assolutamente nulla. In aggiunta, quelli che blaterano di stabilità dimenticano di dire che durante tutta la Prima Repubblica ha governato praticamente sempre lo stesso governo, quello della Democrazia Cristiana coi vari alleati. È vero, cambiavano i nomi dei Presidenti del consiglio, ma la maggioranza era quella e il programma era sempre quello. Per cinquant'anni abbiamo avuto una stabilità politica come forse non si è mai vista al mondo, e adesso vogliono farci credere che con la nuova Costituzione ci sarà più stabilità. Balle. I governi non cadono perché il Senato non dà la fiducia, cadono perché le maggioranze che le compongono sono litigiose, frammentate, spesso per nulla coese, sono accozzaglie (quelle sì) che, pur diverse tra loro, si accorpano per fare numero in occasione delle elezioni e poi ognuno per la sua strada, ed è per questo motivo che i governi continueranno a cadere anche se vinceranno i Sì: perché ormai l'indirizzo dell'attività legislativa è orientato alla soddisfazioni di piccoli interessi personali o di bottega e non più all'interesse generale, ed eliminare la possibilità che il Senato dia la fiducia non cambierà assolutamente niente di questa situazione. Chi mastica un po' di storia sa che una sola Camera che dà la fiducia era prevista nel vecchio Statuto Albertino, quello del 1848 che resse l'Italia monarchica e fascista. Ecco, questi signori ci stanno vendendo come "progresso" il ritorno a un'architettura istituzionale che risale a 170 anni fa e che è stata stracciata con la stesura della Costituzione che abbiamo oggi. Tra l'altro, trovo curioso che a farsi paladino di stabilità sia lo stesso Renzi, che ha fatto fuori Letta dopo un anno, ricorrendo a un giochino extraparlamentare, e che oggi governa con la stessa maggioranza di Letta, ma è noto che la coerenza e la serietà non sono mai state prerogative né di lui né del suo governo.
Ci sarebbero infinite altre cose da dire, infinite altre balle da smontare; ad esempio riguardo alla composizione e al metodo di nomina del nuovo Senato, una questione che palesa come meglio non sarebbe possibile fare la pochezza culturale ma anche solo di conoscenza di grammatica e sintassi di chi ne ha vergato il testo. E ci sarebbe da ridere, se non fosse che invece, purtroppo, è la pochezza di questi personaggi che sta riscrivendo le regole su cui si fonda il nostro Stato.
Ci sarebbe da ribadire fino allo sfinimento che sono una presa in giro la faccenda della diminuzione dei costi (40 milioni di euro risparmiati a fronte di una spesa pubblica complessiva stimata in qualcosa come 800 miliardi di euro), la diminuzione dei parlamentari (200 senatori in meno su un milione e centomila persone che in Italia a vario titolo campano di politica), il rafforzamento - dicono - della sovranità popolare che invece ne risulterà irrimediabilmnte compressa. Purtroppo non è possibile sviscerare tutto in un post. Chi vuole farlo ha comunque, oggi, ogni possibilità attraverso internet o attraverso i libri. Chiudo dicendo che io non sono contrario alle modifiche costituzionali, sono contrario alle riforme costituzionali fatte in questo modo: imposte da una maggioranza di governo senza alcun titolo per metterle in campo e gravate dal peso di una necessità e di una improcrastinabilità inesistenti, propinateci capziosamente e degne sicuramente di miglior causa.
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