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martedì 8 novembre 2016
Nella neve
Aveva minacciato di nevicare tutto il giorno, e del resto le previsioni avevano annunciato la neve con largo anticipo. Ma, si sa, le previsioni meteorologiche sono quelle cose strane che in genere la gente prende per quello che sono, ossia aspettandosi l'esatto contrario di ciò che annunciano. Carlo lo sapeva, l'aveva sempre saputo. Le aveva guardate svogliatamente sul giornale la mattina stessa, dopo essere entrato nel bar e aver chiesto un caffè a Rosalba. Tutte le mattine, regolarmente, Carlo entrava nel bar, alle otto, e ordinava il solito caffè, perché non sta bene leggere il giornale senza prendere almeno un caffè. Certo, Rosalba non avrebbe avuto niente da ridire, in fondo quel vecchio pensionato petulante le faceva anche compagnia, la mattina, lui e gli altri tre o quattro ottuagenari che ogni giorno che il Signore mandava in terra si ritrovavano nel piccolo bar di Rosalba.
A sua moglie non fregava niente che Carlo stesse tutto il giorno al bar a giocare a carte; d'altra parte, niente come quarant'anni di matrimonio fanno sì che le assenze diventino quasi una benedizione. Però le scocciava da matti se la sera alle sette non era a casa per cena, perché gli orari devono essere rispettati, eccheccavolo!
Carlo buttò un occhio all'orologio appeso al muro, sopra il mobile degli alcolici che stava dietro il bancone di Rosalba. Erano quasi le sei di quel giovedì pomeriggio di fine febbraio. Gli altri adepti della combriccola degli ottuagenari se n'erano quasi tutti andati, tutti tranne Mario, che non aveva obblighi di rientro per cena dal momento che sua moglie era passata a miglior vita già da un paio di lustri.
"Carlo, io me ne vado," disse Mario rilegando le carte con l'elastico.
"E dov'è che te ne vai? Mica hai nessuno a casa ad aspettarti..."
"Oh, lo so, ma mi sono rotto di stare qui, e poi fuori sta nevicando, non vedi?"
Carlo si alzò dal tavolino e si avvicinò ai vetri. Era vero, nevicava, e lo faceva con impegno.
"Dài, Carlo, salta su, ti accompagno a casa con la macchina," disse Mario restituendo le carte da gioco a Rosalba, che trafficava con la lavastoviglie incassata sotto il bancone.
"Ma come? E la nostra ultima briscola?"
"Ma chi se ne frega della briscola? È quasi buio, nevica, non voglio restare bloccato nella neve."
"Quanto sei fifone, Mario. E tutto per qualche fiocco." Carlo aprì la porta del bar e guardò meglio fuori. Ce n'era già una scarpa abbondante; probabilmente nevicava già da un po' e loro, impegnati com'erano con le briscole e le chiacchiere, non se n'erano accorti. "Senti, Mario, a me la neve piace, e poi da qui a casa mia sono solo due passi. Credo che me la farò a piedi."
"Ma quali piedi? Ho la macchina qui fuori..." Niente da fare, Carlo declinò l'invito, voleva fare due passi nella neve, che a lui piaceva fin da quando era bambino, e che c'era di male? Rosalba, da dietro il banco, seguiva la diatriba tra i due con scocciato divertimento.
"Vabbe', fa' un po' come vuoi, vecchio rimbambito, tanto parlare con te è come parlare col muro. Se ti va di beccarti una polmonite accompagnata da una settimana di lagne di tua moglie, fai pure. A domani." Mario prese il cappello, si strinse la sciarpa al collo e uscì, salutando Rosalba. Carlo si avvicinò al banco. "Rosy, secondo te è vero che sono rimbambito?" Lei lo guardò, sorridendo. Aveva un bel sorriso, Rosalba, gli anni dietro al bancone del bar e gli acciacchi non erano ancora riusciti a inficiarlo. "No, rimbambito non direi, ma testardo sicuramente." Carlo incassò, sorridendo a sua volta, poi salutò Rosalba, indossò la giacca pesante, i guanti, la sciarpa e uscì nella neve.
L'altezza raggiunta da quest'ultima era molto maggiore di una scarpa, evidentemente nevicava da un pezzo; sul piccolo piazzale di fronte al bar si affondava già fino quasi a metà polpaccio. Arrivò comunque senza grosse difficoltà alla strada, e si incamminò sul ciglio del fosso. La neve continuava a cadere copiosa, insistente, quasi senza ritegno. Nel volgere di nemmeno due minuti ne fu quasi interamente ricoperto: neve sul cappello, sulla sciarpa che aveva attorno al collo, sulle spalle. Le poche macchine che passavano sulla strada avanzavano lentamente, con prudenza, come grossi animali strani che si avventurino, titubanti, in un territorio sconosciuto. Carlo cominciò a pentirsi di aver rifiutato il passaggio di Mario, ma ormai era fatta. Calcolò che sarebbe comunque arrivato a casa in meno di mezzoretta, prima delle sette, evitando così le lagne di Maria.
Luca tolse il cd dei Pink Floyd dal lettore. D'accordo, pensò, The dark side of the moon è stato il disco più bello del secolo scorso, probabilmente nulla lo eguaglierà neppure in questo, ma quando l'hai ascoltato tre volte di fila viene voglia anche di qualcos'altro, eh. Una volta tolto il cd, l'impianto stereo della sua Golf si sintonizzò automaticamente sull'ultima stazione rimasta in memoria, che in quel momento trasmetteva On every street, dei Dire Straits. Luca alzò un pelino il volume. Fuori, intanto, la strada cominciava a creare qualche problema a causa dell'intensa nevicata in corso. La Golf che suo padre gli aveva regalato appena un anno fa, dopo aver superato l'esame di guida e aver conseguito la tanto agognata patente, era equipaggiata con gomme da neve, le quali, però, con una tormenta simile facevano quello che potevano. Su una strada quasi impraticabile a causa della neve, la differenza tra un automobilista esperto e un novellino è principalmente questa: l'utomobilista esperto tiene un'andatura tranquilla, dolce, attenta, conosce il comportamento del mezzo che sta guidando e in base a questo calcola cosa può fare e cosa no. Il novellino ancora non lo sa.
La stazione radio che stava ascoltando ebbe la malaugurata idea di fare seguire ai Dire Straits un pezzo nauseabondo di Little Tony, il che indusse Luca ad agire in fretta sul pulsante della sintonizzazione: Little Tony era troppo. Passò una, due, tre, quattro stazioni assolutamente inascoltabili, la quinta era Radio Maria. Era decisamente troppo. Allungò un braccio e aprì il vano portaoggetti in cui teneva i cd. Un'altra differenza tra un automobilista esperto e un novellino, è che quello esperto non si sogna neppure di andare a scegliere un cd da ascoltare in macchina mentre fuori impazza una tormenta di neve che impedisce di vedere anche la strada, quello inesperto invece lo fa.
Leggermente piegato verso destra, passò in rassegna i cd nell'apposito scomparto: Genesis, Who, di nuovo i Pink Floyd, i Ramones... poi, all'improvviso, un sussulto inaspettato della Golf distolse la sua attenzione dai cd inducendolo a tornare a guardare la strada. Sorpresa, smarrimento e paura lo assalirono insieme: era fuori traiettoria, la parte destra della macchina stava paurosamente avanzando sul ciglio del fosso e se non fosse immediatamente tornato in carreggiata vi sarebbe finito dentro. Frenò d'istinto, con forza, e sterzò bruscamente, l'ultima cosa al mondo da fare in condizioni atmosferiche simili, e che infatti il famoso automobilista esperto non farebbe mai. Troppo tardi. La macchina, pur non procedendo a velocità particolarmente elevata, impazzì e fece un giro su se stessa. L'ultima cosa che vide Luca prima che la sua Golf in testacoda si ribaltasse nel fossato, furono due occhi sbarrati dal terrore illuminati per un attimo dai fari della macchina: gli occhi di Carlo. Luca non lo poté evitare.
I ritorni alla vita sono spesso accompagnati da rumori strani, inusuali, con cui non si ha in genere troppa familiarità. In questo caso si trattava di una specie di bip costante, regolare, accompagnato da un lievissimo ronzio di sottofondo. Un leggero tremolio delle palpebre fu il preludio alla lenta, quasi timorosa, apertura degli occhi. La prima cosa che Carlo mise a fuoco, non appena i suoi occhi si furono abituati alla pur poca luce, fu il colore verde con cui erano pitturate le pareti di quella piccola stanza. Mosse gli occhi roteandoli lentamente all'interno del campo visivo, poi volle vedere di più e provò a muovere il collo. Vide alla sua destra il macchinario che emetteva il bip e al di là di quello un altro letto, vuoto. In quella piccola stanza c'erano solo due letti, in uno c'era lui, nell'altro nessuno, letto intonso. Si guardò il braccio, vide l'ago da cui partiva un piccolo tubicino, collegato a un sacchetto trasparente appeso a una specie di trespolo alla sua sinistra. Aveva visto abbastanza film per riconoscere una flebo. La stanza era in penombra perché, nonostante fosse giorno pieno, la tapparella era per metà abbassata. Realizzò di essere in un ospedale, e soprattutto realizzò di non potersi muovere perché le sue gambe erano bloccate, appese a degli strani trespoli. Perché sono qui? pensò. Poi, lentamente, alla stregua di un lungo tappeto rosso che viene srotolato all'ingresso di un albergo di lusso, la sua memoria cominciò a ricomporre il puzzle: Rosalba, il bar, la camminata sotto la neve, la macchina impazzita, l'impatto, sua moglie Maria che lo aspettava alle 7 per cena.
Da quanto tempo si trovava in quella stanza? Quali erano le sue condizioni? Che ore erano? Queste e altre domande affioravano nella sua mente, tutte senza risposta. L'unica cosa sicura, in quel turbinio di interrogativi insoluti, era che si trovava in una stanza d'ospedale, e nelle stanze d'ospedale c'è sicuramente un pulsante da schiacciare con cui chiamare qualcuno. È una certezza. Alzò lo sguardo un poco e lo vide, un piccolo bottone rosso all'estremità di un filo fissato alla spalliera del suo letto. Allungò lentamente la mano destra, costringendo a un notevole sforzo il suo braccio ancora intorpidito, e prese in mano il pulsante che penzolava. Lo premette. Non successe niente. Silenzio assoluto. Riprovò più volte: sempre silenzio, il segnale sonoro che avrebbe dovuto richiamare qualcuno non funzionava. L'iniziale sorpresa, col passare dei secondi cedette lentamente il posto a un sottile senso di inquietudine. Poco male, pensò, chiamerò a voce qualcuno, in fondo è un ospedale, mica un cimitero. In realtà nella sua mente stava cominciando ad aprirsi qualche piccola crepa nel muro che rappresentava quella certezza, ma Carlo si sforzò, con crescente fatica, di non darle peso.
"Infermiera? Dottore? C'è nessuno?" Silenzio. Provò di nuovo, questa volta con la voce accentuata da qualcosa che poteva sicuramente essere paura: "Infermiera! Dottore! Insomma, c'è qualcuno in questo cazzo d'ospedale?" Di nuovo silenzio. La porta della sua stanza era socchiusa e da quello spiraglio si intravedeva un corridoio, un corridoio deserto in cui non passava nessuno. Non c'era anima viva. Anche se la sua mente si rifiutava di accettarlo, Carlo cominciò a prendere in considerazione l'idea di essere l'unica persona presente in quell'ospedale, ammesso che fosse un ospedale.
"Se fossi in te non mi agiterei tanto." Carlo si paralizzò dalla sorpresa e dalla paura, bocca aperta e occhi sbarrati. Chi aveva parlato? La porta lentamente si aprì e comparve un uomo. No, non era un uomo, non appena Carlo fu in grado di distinguere nella poca luce della stanza la persona che era entrata, si rese conto che si trattava di un ragazzo, che a occhio avrebbe potuto a malapena essere maggiorenne.
"Chi sei?" domandò Carlo con la sgradevole sensazione che quella presenza non gli avrebbe portato nulla di buono.
"Non è importante," rispose il nuovo arrivato, tanto la faccenda finisce qui, oggi, fra poco, forse fra cinque minuti, forse meno." La non più giovane mente di Carlo, con considerevole sforzo, cercava disperatamente di interpretare e dare un senso a quelle parole, a quella persona, a tutta quella assurda situazione, ma fu inutile. Un senso di resa si impossessò di lui. Abbandonò la tensione e si lasciò andare nel letto in cui era costretto. Poi guardò il ragazzo che era appena entrato e che stazionava ai piedi del suo letto-prigione.
"Sai, Carlo, credo che ti sia capitato un piccolo incidente, qualche giorno fa, probabilmente ricordi, no?" Carlo capì che quella che aveva di fronte era la persona che l'aveva investito con la macchina. "Sì, non ti stupire più di tanto, hai capito benissimo, sono proprio io."
"Perché sei qui? Perché io sono qui, in questo letto? E come sai il mio nome?"
"Ehi ehi ehi," lo interruppe il ragazzo, "non amo le domande, soprattutto quando sono troppe, e tu me ne hai fatte troppe, ci siamo intesi?" Carlo annui, in silenzio.
"Allora, la faccio breve perché ho una certa fretta. Sono Luca, guidavo la Golf che ti ha investito mentre camminavi nella neve. Ti sei salvato, ma non era in programma, ed è per questo che sono qui: sono venuto a finire il lavoro lasciato a metà, perché non va bene lasciare i lavori a metà, vero Carlo?" Carlo non disse niente, desiderava solo che tutta quell'assurda situazione avesse fine. Subito.
"Oh, lo so, lo so, tu ti chiederai sicuramente perché io non abbia finito subito il lavoro e abbia invece provveduto a tenerti vivo fino ad ora. Beh, è molto semplice: perché mi occorrevi cosciente per poter terminare come si deve il lavoro, dopo l'incidente non lo eri e adesso lo sei. Ah, dimenticavo: ti sarai sicuramente accorto che in questo ospedale non c'è nessuno. Sta' tranquillo, sono stato io a fare in modo di non avere seccatori in giro, certi lavori richiedono assenza di testimoni, mi capisci, no?" Luca si produsse in un ghigno orrendo, mentre la fisionomia del suo volto cambiava in qualcosa che non aveva più niente di umano, poi si mosse verso Carlo, affiancandosi a lui. Carlo girò la testa dalla parte opposta per non vederlo e cominciò a divincolarsi. Avrebbe voluto scappare, rotolarsi fino a cadere dal letto, ma ad ogni movimento le gambe appese a quei ferri mandavano fitte atroci. Rinunciò. Luca, o quella cosa che fino a poco prima sembrava avere sembianze umane e che diceva di chiamarsi Luca, gli afferrò il viso e lo girò verso di sé. Carlo cercava di non guardare, continuava a non aprire gli occhi, ma sentiva la mano di Luca (a un certo punto si chiese anche se fosse realmente una mano) aumentare la pressione. Arrivò il dolore. Carlo cercò di resistere continuando a tenere gli occhi chiusi.
"C'è qualcosa che mi vuoi dire, Carlo, prima che io porti a compimento il mio lavoro?" chiese la cosa (Luca?) sopra di lui, ridacchiando orrendamente. La sua voce non era più quella di prima, era diventata più gutturale, rauca, Carlo non riusciva a inquadrarla né ad associarla a quella di alcun essere vivente. Raccolse gli ultimi scampoli di forza e di coraggio e aprì gli occhi. "Sì, c'è qualcosa che ti voglio dire, prima che tu finisca... Vaffanculo!" e sputò dritto in faccia (era una faccia?) a quella cosa, qualunque cosa fosse. L'essere aprì qualcosa che sembrava una immensa bocca e si gettò sul suo volto. Carlo lanciò un grido disumano.
"Carlo! Carlo svegliati!" La massa informe che si stava avventando su di lui lo stava strattonando per la maglia, ma Carlo si accorse all'improvviso che non era più quella di prima, e riconobbe i tratti familiari di Rosalba. "Rosalba, sei tu..." disse ansimando.
"Certo che sono io, e ti garantisco che questa è l'ultima volta che ti vengo a svegliare perché ti sei addormentato al tavolo, la prossima volta telefono a Maria e ti faccio venire a svegliare da lei."
"Ma allora... l'incidente, l'ospedale..."
"Ma quale ospedale! Hai sognato. A quello ti ci mando io se non prendi subito i tuoi stracci e te ne vai!" Era stato tutto un sogno, un incubo. Carlo si alzò dal tavolo, si coprì e si avviò alla porta. Fuori nevicava. "Da quanto tempo nevica, Rosy?"
"Saranno un paio d'ore. Più o meno da quando ti sei addormentato. E adesso smamma, devo chiudere il bar." Carlo aprì la porta, poi si girò verso Rosalba. "Grazie di avermi svegliato, Rosy." Uscì e si incamminò verso casa.
Nella neve.
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