Nonostante io bazzichi in rete da molti anni, ancora mi stupisco di ciò che è possibile trovarvi. L'ultimo di questi stupori è nato dall'aver scoperto che sono reperibili su YouTube interi concerti dei Nomadi risalenti al periodo degli anni Ottanta del secolo scorso. Perché questi concerti sono per me importanti? Andiamo un po' con ordine.
Uno dei cantautori a cui per primo mi avvicinai da ragazzino fu Francesco Guccini, tanto che i primi accordi con cui mossi i primi passi sulla tastiera di una chitarra fu il giro di Do Maggiore che apre la celeberrima Dio è morto del cantautore di Pàvana. Nel 1979 - io avevo nove anni - Guccini fece un tour assieme ai Nomadi, un complesso (all'epoca i gruppi si chiamavano ancora "complessi") di ragazzotti abbastanza squinternati originari di Novellara, anonimo paesino della provincia di Reggio Emilia. Il complesso era capitanato da Augusto Daolio (prematuramente scomparso nel 1992) e Beppe Carletti, oggi l'unico superstite della formazione originaria dei Nomadi.
Rimasi affascinato dal timbro e da quel modo particolare di tirare fuori la voce di Augusto e cominciai a interessarmi a questa band, alla loro musica e ai loro dischi. Dopo l'enorme successo degli anni Sessanta e primi Settanta, il gruppo uscì gradualmente dai riflettori e dal giro che conta della musica italiana, principalmente a causa del loro rifiuto di adeguarsi al susseguirsi di mode e tendenze imposte dall'industria discografica, preferendo rimanere fedeli al loro modo "artigianale" e caratteristico di fare musica. In più, dopo l'incontro con Guccini, la loro produzione musicale si inserì con decisione nel solco di quella che venne (e viene tuttora) definita musica impegnata, con testi caratterizzati da forti impronte politiche e sociali (I ragazzi dell'olivo e Contro sono canzoni emblematiche in questo senso).
La svolta impegnata imboccata alla fine dei Settanta, conseguente all'incontro con Guccini, fu ciò che diede il colpo di grazia alla loro attività musicale e al loro rapporto con le case discografiche, cosa tutto sommato comprensibile, a ben pensarci. Gli anni Ottanta hanno infatti rappresentato il decennio del disimpegno, della leggerezza, del divertimento sfrenato sullo stampo del famoso "edonismo reaganiano" imperante oltre oceano. Erano gli anni della famosa Milano da bere, di quell'atrofizzatore di cervelli per eccellenza che in tv era Drive In, dei piaceri smodati e del rifiuto quasi generalizzato di indulgere a qualsivoglia forma di pensiero. Fare musica impegnata in questo periodo significava porsi ai margini senza possibilità di scampo.
Augusto, Beppe e soci, testardi come solo certi padani sanno esserlo, ostracizzati da ogni circuito televisivo e dal mondo della musica mainstream continuarono sulla loro strada con ostinazione e coerenza, incuranti delle mode e delle tendenze. Fondarono una propria casa discografica, autonoma e indipendente, e continuarono a fare i loro dischi e i loro tour. Negli anni Ottanta facevano tra le duecento e le trecento serate all'anno, raggiungendo, oltre ai grandi centri, le località più spedute e impensabili sparse in ogni angolo dello stivale, spesso con un pubblico addirittura composto di poche decine di persone, come ebbi modo di constatare di persona.
Questo era il periodo, tra il 1985 e il 1990, in cui io non mi perdevo un loro concerto, naturalmente quando non erano eccessivamente lontani, dal momento che all'epoca potevo spostarmi solo col mio Ciao (nel 1988 presi la patente e cominciai ad andarci in macchina, portando con me Chiara, anche lei contagiata dalla passione per i Nomadi). Ricordo ad esempio un loro concerto qui a Santarcangelo, nel 1986 (credo). Suonarono nel campo del Tamburello e a sentirli c'erano forse un centinaio di persone, non di più. Alla fine del concerto salii sul palco, mi avvicinai ad Augusto e, con un po' di trepidazione, gli chiesi se poteva farmi un autografo. Avevo con me un foglietto di carta e una Bic gialla e glieli diedi. Lui prese il foglietto, lo appoggiò su un piano e cominciò a disegnare con la penna una specie di ritratto del suo viso in forma stilizzata (Augusto, oltre a quella della musica, aveva la passione per il disegno e la pittura). Poi, sotto, scrisse: "Ancora una volta, con sentimento, sempre Nomadi!" aggiungendo il suo autografo. Avevo sedici anni e quel gesto mi fece felice come poche altre cose.
Un altro concerto che ricordo bene lo fecero a San Marino, in una piccola e anonima piazzetta del centro storico. Mi recai lì sempre col mio Ciao, sfidando il traffico delle quattro corsie della Consolare e sottoponendo il mio fidato due ruote al gravoso compito di affrontare i molti tornanti in salita che conducono al centro storico. Lì, a sentirli, ci furono veramente pochissime persone, forse una cinquantina, non di più. Ma loro suonarono con lo stesso divertimento e lo stesso impegno di sempre per quasi tre ore. Questi sono i due concerti di cui ho un ricordo più nitido, ma in quegli anni ne vidi tantissimi. Nel 1992, a soli 45 anni, Augusto Daolio morì, ucciso dalle troppe sigarette. Arrivò un altro cantante al suo posto, Danilo Sacco, voce potente e per alcune sfumature simile a quella di Augusto, ma il suo timbro e quel modo particolare di tirare fuori la voce sono rimasti a tutt'oggi ineguagliati.
Augusto Daolio in una foto di fine anni Ottanta.
I Nomadi nella formazione anni Ottanta. Da sinistra: Dante Pergreffi (basso), Beppe Carletti (tastiere), Augusto Daolio (voce), Giampaolo Lancellotti (batteria), Cristopher Patrick Dennis (chitarre).
Dopo la morte di Augusto continuai a seguirli e ad ascoltarli, anche se qualcosa si era rotto, diciamo così, e trasmisi la passione nomade alle mie figlie. Francesca, in particolare, ha oggi per loro la stessa passione che avevo io all'epoca e prima che scoppiasse la pandemia correva ad ascoltarli in ogni dove.
Qui di seguito due loro cavalli di battaglia dell'epoca: La collina e Mamma giustizia.
Qui di seguito, invece, un concerto intero (Badia Polesine, 1989) dei tanti che si possono trovare in rete. Concerto che oggi pomeriggio ho intenzione di gustarmi integralmente, comodamente spaparanzato sul divano, immaginando di tornare quel ragazzino di sedici anni che col suo Ciao correva ad ascoltarli ogni volta che poteva.
Lucia Borgonzoni, qualche giorno fa, è stata nominata sottosegretaria alla cultura del neonato governo Draghi, ruolo, questo, già ricoperto nel primo governo Conte. Puntuali, come del resto accadde successivamente alla sua nomina nel governo giallo-verde, sono piovute le polemiche, innescate da una sua celebre uscita in cui affermò di non leggere un libro da tre anni. In realtà, trovo queste polemiche abbastanza pretestuose. Non so di preciso quale sia il ruolo di un sottosegretario alla cultura ma immagino si tratti di compiti di tipo gestionale/amministrativo all'interno del comparto cultura, e per svolgere tali mansioni non penso sia obbligatorio leggere cinquanta libri all'anno. Certo, quando si pensa alla cultura nella sua accezione più ampia, risulta abbastanza stridente immaginare di dissociarla dai libri, ma lavorare all'interno di un ministero dedicato alla cultura comprende probabilmente una pluralità di mansioni per espletare le quali, come dicevo, può non essere necessario essere accaniti lettori.
Sia come sia, la nomina della signora Borgonzoni si inserisce in un già da tempo consolidato modus operandi politico dove competenza e capacità vengono sacrificate sull'altare di meri interessi familistici o di bottega. Non si spiegherebbe altrimenti un sottosegretario alla cultura che confonde Dante con Topolino. Ma gli esempi che si potrebbero fare sono tantissimi: da un Ministro degli esteri che non spiccica una parola di inglese (Di Maio) a un Presidente della Camera (Fico) sempre in lotta coi congiuntivi a un (fortunatamente ex) Ministro degli interni che nel suo ufficio nessuno ha mai visto. Come dimenticare, poi, andando indietro nel tempo, i memorabili anni berlusconiani con la signora Gelmini al vertice del Ministero dell'istruzione o Nicole Minetti alla Regione Lombardia? E si potrebbe continuare, in un triste e sconsolante percorso a ritroso. Ecco perché, a mio parere, se la signora Borgonzoni non legge non è in fondo così grave.
Nel saggio Perché i libri allungano la vita, una raccolta di scritti di Umberto Eco su arte e letteratura, il filosofo-narratore tira a un certo punto un parallelo tra gli anziani e i libri. Scrive Eco:
"Sin dai tempi in cui la specie cominciava a emettere i suoi primi suoni sinificativi, le famiglie e le tribù hanno avuto bisogno dei vecchi. Forse prima non servivano e venivano buttati quando non erano più buoni per la caccia. Ma con il linguaggio i vecchi sono diventati la memoria della specie: si sedevano nella caverna, attorno al fuoco, e raccontavano quello che era accaduto prima che i giovani fossero nati. Prima che si iniziasse a coltivare questa memoria sociale, l'uomo nasceva senza esperienza, non faceva in tempo a farsela, e moriva. Dopo, un giovane di vent'anni era come se ne avesse vissuti cinquemila. I fatti accaduti prima di lui, e quello che avevano imparato gli anziani, entravano a far parte della sua memoria. Oggi i libri sono i nostri vecchi. Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra ricchezza rispetto all'analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissute moltissime. Ricordiamo, insieme ai nostri giochi d'infanzia, quelli di Proust, abbiamo spasimato per il nostro amore ma anche per quello di Piramo e Tisbe, abbiamo assimilato qualcosa della saggezza di Solone, abbiamo rabbrividito per certe notti di vento a Sant'Elena e ci ripetiamo, insieme alla fiaba che ci ha raccontato la nonna, quella che aveva raccontato Sheherazade. A qualcuno tutto questo dà l'impressione che, appena nati, noi siamo già insopportabilmente anziani. Ma è più decrepito l'analfabeta (di origine o di ritorno), che patisce di arteriosclerosi sin da bambino, e non ricorda (perché non sa) che cosa sia accaduto alle Idi di Marzo. Non conoscendo i torti degli altri, l'analfabeta non conosce neppure i propri diritti. Il libro è un'assicurazione sulla vita, una piccola anticipazione di immortalità. All'indietro (ahimè) anziché in avanti. Ma non si può avere tutto."
I primi due aggettivi con cui descriverei questo romanzo, il primo di Elsa Morante, sono monumentale e inattuale. Monumentale a causa della lunghezza, inattuale a causa del tipo di prosa, già caratterizzata da una certa, voluta arcaicità ai tempi in cui fu pubblicato, il 1948. Ma è inattuale anche perché completamente estraneo ai canoni che definiscono al tempo di oggi un romanzo, e cioè un riuscito concentrato di velocità, ritmo, mordente. Menzogna e sortilegio ha ben poco di tutto ciò e privilegia un tipo di narrazione più "lenta", riflessiva, che indulge quasi con protervia alla descrizione caratteriale dei personaggi e alle interazioni tra gli stessi. Ricorda un po' il Goethe de Le affinità elettive o il Dumas de Il conte di Montecristo, per capirci. Non è un libro facile, specie rapportato alla narrativa di intrattenimento odierna dei Wilbur Smith o dei Ken Follett, ma parte del suo fascino e della sua bellezza sta proprio in questo.
Da lunedì, probabilmente, l'Emilia-Romagna tornerà arancione, dopo due settimane di giallo seguite alle precedenti due ancora arancioni. Stavo pensando che più o meno un anno fa cominciava questo balletto di restrizioni inaugurato con il lockdown duro di marzo e aprile. All'epoca cominciarono ad apparire i famosi cartelloni e lenzuola, appesi a finestre e balconi, con su scritto "Andrà tutto bene".
A distanza di un anno, si può dire che è andato tutto bene? Boh, non so, credo sia una valutazione soggettiva, come tutte le valutazioni, del resto. Per quel che mi riguarda, pensavo ieri, questo anno di stravolgimenti generali non ha cambiato granché il mio sistema di vita. Prima dell'arrivo della pandemia le mie due attività preferite erano stare in casa a leggere libri e andare a passeggiare sulle colline qui dietro a casa mia, e su queste le restrizioni non hanno avuto effetti, se si esclude il già citato lockdown duro di marzo e aprile durante il quale non si poteva neppure mettere il naso fuori di casa.
Poi, certo, uscendo dai personalismi so benissimo che per larga parte della società pandemia e restrizioni hanno avuto effetti devastanti su tutti i piani, economico, sociale, lavorativo, psicologico, personale ecc., e che per questa parte di società non è affatto andato tutto bene. Ho solo voluto dire - e non crediate che non mi renda conto di essere stato fortunato - che, tutto sommato, gli effetti di tutto questo sconvolgimento mi hanno nel complesso solo sfiorato. Almeno finora.
Il settimanale letterario Robinson, uscito ieri mattina assieme a Repubblica, pubblica vari scritti di Umberto Eco tra cui una sua breve autobiografia inedita. Qui Eco riversa pensieri, riflessioni, racconti della sua infanzia, della sua vita. Scrisse questi pensieri nel 2015, un anno prima della sua prematura morte, e la chiude con alcune bellissime riflessioni su colei che san Francesco definì sorella. Le lascio qui di seguito, in caso a qualcuno interessino. Si tratta di semplici catture fotografiche fatte con lo smartphone (cliccandoci sopra si ingrandiscono un po'), spero siano leggibili.
Come ho già scritto in passato, per motivi di lavoro sono a contatto ogni giorno con persone provenienti da ogni parte del mondo. Stamattina chiacchieravo con Nasìr, un simpaticissimo ragazzo pakistano che è qua in Italia da cinque anni, con moglie e figlio, e che parla italiano molto meglio di tanti leghisti. Lui è nato in un villaggio sul confine tra Pakistan e India e prima di arrivare in Italia ha lavorato per qualche tempo negli Emirati arabi. Chiacchierando, mi ha raccontato alcune cose che non sapevo.
Una, ad esempio, è che l'acqua gassata esiste solo in Europa, altrove è praticamente sconosciuta, o almeno è sconosciuta in Pakistan, India, Arabia, Emirati, posti in cui lui è stato. Poi mi ha raccontato alcune cose del suo paese, il Pakistan appunto, che è una repubblica islamica che conta più di duecento milioni di persone e in cui le due lingue più diffuse sono l'inglese e l'urdu. Quest'ultima, seppure non sia la più parlata, è la lingua franca del paese. In pratica è arabo, seppur leggermente variato rispetto all'arabo "ufficiale", cioè l'arabo che si parla sulla fascia mediterranea che va dall'Arabia saudita ed Egitto fino al Marocco. Tanto è vero che quando parla con altri due ragazzi marocchini, anche loro miei colleghi, tra loro si intendono benissimo.
Poi il discorso è caduto sul caffè. La sua più grossa sorpresa, arrivato in Italia, è stata scoprire che qua si beve liscio; una cosa stranissima, dal suo punto di vista, dato che nel suo paese si beve solo allungato con l'acqua. Gli ci è voluto un po' ad abituarsi. In Pakistan e in India è invece molto il diffuso il tè, anche questo sempre allungato con altro, come ad esempio il latte. Gli ho fatto notare che qua tè e latte viaggiano rigorosamente separati, diversamente da altri paesi europei come la Germania, dove latte e tè è usanza mescolarli assieme. Poi abbiamo parlato di cucina, e mi ha detto quello che è un po' risaputo dappertutto, e cioè che la cucina italiana è la migliore del mondo, e in tutti i posti in cui lui è stato i cuochi italiani sono i più ricercati. Poi mi ha chiesto alcune cose relative alla politica italiana che non gli sono ben chiare e gli ho risposto che riuscire a capire la politica italiana è impresa ardua anche per molti italiani.
È stata una bella chiacchierata. Parlare con persone che vengono da altri paesi, altre culture, altre realtà, è una delle esperienze più belle che si possano fare. In primo luogo perché se ne esce arricchiti e si imparano cose che magari non si sapevano; in secondo luogo perché quando ci si raffronta con gli altri si conosce meglio sé stessi. Mettere a confronto il proprio modo di vivere, le proprie usanze, la propria cultura con altre diverse, non consente solo di conoscere le altre ma anche la propria. Credo che, in genere, a questo aspetto si pensi poco.
Stamattina presto c'era il sole e la cosa mi aveva procurato un certo piacere, perché oggi è la prima domenica del mese e qui a Santarcangelo c'è il tradizionale mercatino dell'usato. Per qualche incomprensibile motivo mi piace andarci e provo piacere nel gironzolare tra le varie bancarelle, gestite perlopiù da tipi pittoreschi e a volte stravaganti che vendono oggetti vecchissimi e generalmente non più funzionanti: giradischi, macchine da cucire, vinili con le copertine sciupate e malandate, lampade da comodino, libri, grammofoni, mangianastri, vecchi televisori in bianco e nero senza telecomando (di quelli che per cambiare canale bisognava avvicinarsi all'apparecchio e ruotare una manopola o spingere un pulsante). E poi vasi, contenitori di qualsiasi tipo, carriole, attrezzi per il giardinaggio arrugginiti, vecchi vestiti da sposa e chi più ne ha più ne metta.
Mi sono sempre chiesto perché mi piacciano i mercatini dell'usato ma non sono mai riuscito a rispondermi compiutamente. Una possibile risposta che mi sono dato è che ho cinquant'anni, ho abbondantemente superato metà della vita e immagino che, in un ipotetico mercatino dell'usato degli esseri umani, troverei anche io posto su una di quelle bancarelle. L'altra risposta a cui ho pensato è che i mercatini dell'usato sono il perfetto contraltare dei negozi sciccosi e luccicanti dove si trova solo ciò che è all'ultima moda. Se questi ultimi sono infatti l'emblema di tutto ciò che è usa-e-getta, che oggi è la forma su cui è modellata la nostra rutilante società, i mercatini dell'usato sono l'espressione di un mondo ormai perduto in cui le cose conservano ancora un valore. Non un valore monetario o economico, naturalmente, ma un valore inteso come espressione di un vissuto, di un qualcosa che a livello affettivo può ancora avere un significato. I mercatini dell'usato come ultimo baluardo di un modo di concepire la vita e la società in maniera differente dall'usa-e-getta imperante.
Camminando e osservando quegli oggetti mi viene infatti da chiedermi: Chissà se chi usava quel vecchio grammofono è ancora in vita? Chissà chi era, che vita faceva, e chissà quali dischi sono stati ascoltati e tradotti in suono da quel vecchio braccio ormai senza puntina? Oppure: Chissà chi era il proprietario di quella vecchia copia di Madame Bovary? Chissà se gli è piaciuto, il libro? Domande naturalmente che resteranno sempre senza risposta ma che è inevitabile che nascano e che sono diverse dalle domande che nascono entrando da Tezenis dentro l'Ipercoop di Savignano.
Comunque, dicevo, stamattina c'era il sole e ora piove, quindi credo che rimanderò il giretto tra il vecchiume alla prima domenica di marzo, sperando in un meteo più clemente.
Non m'aspettavo che Mattarella convocasse Mario Draghi per affidargli l'incarico di formare un nuovo governo, né, ancora meno, mi aspettavo che Draghi accettasse, dal momento che in più di un'occasione, anche in tempi recenti, mi sembra di ricordare che avesse negato la sua disponibilità a chiunque gli ventilasse la cosa.
Riuscirà il banchiere a formare un nuovo governo? Sì, ci riuscirà. I partiti faranno un po' di chiacchiere, qualcuno storcerà il naso, qualcun altro, come i Cinquestelle, metterà in campo un po' di finta contrarietà ma Mario due prenderà in mano la situazione che lo si voglia o no, se non vorremo vedere il differenziale tra i bund tedeschi e i BTP a 1000 nel breve termine con tutto quello che ne potrebbe conseguire. Perché, in caso non fosse ancora chiaro, è ormai l'economia che detta legge, non certo la politica.
Draghi sarà uno che farà poche chiacchiere, anzi pochissime, il minimo indispensabile e forse ancora meno. È un banchiere, è un tecnico (tecnocrate?), e soprattutto è competente e autorevole, due componenti da tempo praticamente scomparse dalla scena politica nostrana.
Non c'è da stare sereni, per come la vedo io. Dopo Lamberto Dini e Mario Monti, Draghi sarà il terzo banchiere a prendere in mano il paese e un banchiere ha come primo compito quello di fare quadrare i conti. Chi ha un po' di memoria storica ricorda benissimo il modo in cui i suoi predecessori banchieri lo fecero. Prepariamoci.
Elsa Morante, in Menzogna e sortilegio, pubblicato nel 1949, scrive "valige", "grige", "effige", stravolgendo, apparentemente, la regoletta che si adotta per il plurale dei nomi che terminano in -cia e -gia. In realtà non è un errore. Anche Buzzati e altri scrivevano "valige", come ho potuto constatare leggendo il suo libro 60 racconti. Molto più semplicemente, in epoca passata l'usanza di scrivere quei nomi senza la "i" era corretta. Questo perché la lingua evolve, cambia, si modifica. Per cui, a chi oggi vi rinfacci come un gravissimo errore valigie senza la "i", potete sempre rispondere: "Vallo a dire a Buzzati o alla Morante." :-)
Stavo pensando che se, ipoteticamente, fosse possibile mettere uno sulle spalle dell'altro tutti quelli che ieri hanno perculato Corrado Augias per la vicenda della mail truffaldina, e una volta impilati gli si mettessero vicino, lui li guarderebbe sempre dall'alto.