lunedì 12 aprile 2010

Le motivazioni della sentenza Google-Vividown

Il tribunale di Milano ha depositato e rese pubbliche le motivazioni che hanno determinato la condanna di tre alti dirigenti di Google per violazione della privacy. E' l'atto finale di una vicenda giudiziaria che si trascina dal 2006, anno in cui un bambino autistico venne dileggiato e fisicamente oltraggiato da alcuni compagni di scuola che pubblicarono poi la registrazione su Google Video, dove rimase per due mesi prima che venisse rimossa in seguito all’intervento della polizia postale.

Sono sincero, non ho avuto voglia (né tempo) di leggermi tutte le 111 pagine del documento (pdf qui); riporto quindi, molto brevemente, le impressioni e i pareri che ho trovato in giro. Mi pare che i commenti più interessanti siano quelli di Zambardino e di Gilioli. Il primo scrive:

Il succo della vicenda e di ciò che se ne può pensare, è così riassumibile:
a) La sentenza condanna Google solo per le infrazioni relative alla privacy, non per l’accusa di diffamazione, perché a seguito del ritiro della querela della persona offesa non si è potuto andare avanti su questo punto.

b) Il ragionamento del giudice – siamo in sede di motivazioni – è che Google avrebbe dovuto informare i suoi utenti del fatto che se si pubblica il video che riguarda una terza persona, il consenso di quel terzo è necessario perché non ci sia reato.
Per il giudice questo non è avvenuto e soprattutto il trattamento del video attraverso l’indicizzazione, le classifiche di popolarità e il potenziale inserimento dei programmi pubblicitari di Google indica una “conoscenza” del video e questo complica la posizione dei responsabili.
Nonostante neghi la possibilità di un controllo preventivo, qui è come se il giudice chiedesse che “l’hoster attivo” (è scritto così nel testo) si faccia carico di rendere edotto tutto il suo potenziale pubblico della normativa sulla privacy.

Anche l'analisi di Gilioli, come dicevo, mi pare abbastanza interessante:

Secondo me – lasciando perdere alcune digressioni ideologiche sul Web che il giudice poteva tranquillamente risparmiarsi – è importante che (contrariamente a quanto si pensava) non sia stato stabilito il precedente in base al quale le piattaforme di condivisione hanno l’obbligo di visionare preventivamente il materiale: la responsabilità di Google viene infatti circoscritta a una presunta carenza e genericità, nelle “condizioni di servizio” accettate dall’utente, degli obblighi riguardanti il rispetto della privacy altrui.

Insomma i dirigenti di Google sarebbero colpevoli di non aver messo in guardia abbastanza chiaramente gli uploader sugli obblighi derivanti dalla legge sulla privacy in Italia (la privacy violata è quella del ragazzino vittima di bullismo, di cui nel video emerge la patologia). Il tutto, secondo il giudice, sarebbe il frutto di una policy aziendale spregiudicata, finalizzata ad acquisire pubblico e pubblicità sul proprio sito.

Insomma, alla fine sembra la solita storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, a seconda della parte da cui lo si guarda.

Altri articoli: Punto Informatico, ZeusNews, Guido Scorza. Per i palati fini e i cervelli raffinati ci sono invece le dichiarazioni di Gasparri.

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